Corriere 28.11.16
i moderati e la lezione di Parigi
di Aldo Cazzullo
Per
noi italiani è uno sconosciuto, ma dovremo confrontarci con lui; e non
sarà morbido e inutile come Hollande. François Fillon ha in tasca le
chiavi dell’Eliseo. Se non commetterà gravi errori da qui al 23 aprile
2017, al primo turno delle Presidenziali sovrasterà il candidato che i
socialisti sceglieranno a gennaio. E al ballottaggio una parte della
sinistra lo sosterrà, pur di fermare l’ascesa di Marine Le Pen, che al
primo turno potrebbe superare il 25%.
Una vittoria della candidata
di estrema destra — non impossibile ma improbabile — segnerebbe la fine
dell’Europa. Però la vittoria di Fillon non significa che a Parigi non
cambierà nulla.
Il candidato che ieri ha stravinto le primarie
della destra repubblicana tiene sulla scrivania due foto: i suoi cinque
figli; e il ritratto di Philippe Séguin, il suo maestro politico.
Personaggio molto interessante, Séguin: figlio di un combattente
antinazista, caduto agli ordini di De Gaulle nella liberazione della
Francia quando lui aveva un anno; capo dell’ala sociale del gaullismo; e
unico leader — accanto a Charles Pasqua, il mastino corso — a
schierarsi per il no a Maastricht e alla moneta unica nel referendum del
20 settembre 1992, che vide il sì sostenuto da Mitterrand e Chirac
prevalere di un soffio.
Fillon non è Séguin. In economia è un liberale: ha vinto promettendo di tagliare mezzo milione di dipendenti pubblici.
C
on l’Islam ha un atteggiamento duro: Séguin era nato e cresciuto a
Tunisi e sosteneva che un arabo può essere più francese di un normanno o
di un borgognone se crede nei princìpi della Francia; lo stesso Juppé
ha esaltato «l’identità felice»; Fillon invece ha posto l’accento sui
pericoli che l’immigrazione rappresenta per i valori della Repubblica.
Ma verso l’Europa avrà la stessa diffidenza del suo mentore. Con
un’ambizione forse velleitaria — ma ricorrente nella politica di Parigi —
di ricucire con Mosca per avere qualche carta in più da giocare nella
partita con Berlino.
Questa non è necessariamente una cattiva
notizia. Una Francia lepenista che si chiamasse fuori farebbe
dell’Europa una colonia tedesca. Una Francia forte, come quella che
Fillon promette, conviene anche all’Italia. La sua idea è che la Francia
debba recuperare fiducia in se stessa; e che per questo occorra
ripristinare l’ascensore sociale, responsabilizzare impiegati e operai,
rendere più facile fare impresa. Parola d’ordine: désétatiser , far
dimagrire lo Stato. Addio 35 ore: i francesi dovranno lavorare di più.
Meno tasse, meno burocrazia. Legge e ordine nelle banlieues .
Certo
c’è un elemento di ambiguità, se il candidato della «rottura» è un uomo
entrato in Parlamento oltre 35 anni fa. E il suo progetto di conciliare
nazionalismo e liberalismo, di far convivere la destra identitaria con
quella globalista, Trump e il Wall Street Journal , deve fare i conti
con la realtà. Tutto può ancora accadere, a maggior ragione ora che
sulla scena politica europea ha fatto irruzione il terrorismo islamico.
Marine Le Pen tenterà al secondo turno di accattivarsi le simpatie della
sinistra antisistema, presentando il rivale come alfiere di un
liberismo superato dalla storia. E se Fillon dovesse vincere, come
probabile, i francesi potrebbero disamorarsi in fretta anche di lui,
come si sono stancati di Hollande — e di Sarkozy — sino al disgusto.
Eppure da Parigi viene un’altra indicazione interessante per il nostro
Paese.
Era la prima volta che la destra organizzava primarie per
scegliere il proprio candidato all’Eliseo. Quattro milioni di elettori
si sono mobilitati, in due consecutive domeniche di novembre. Un esempio
per la destra italiana, potenzialmente maggioritaria, ma priva di un
leader riconosciuto e di un autentico programma nazionale e liberale.
«Do appuntamento a tutti coloro che sono fieri di essere francesi — ha
detto Fillon chiudendo la campagna elettorale —. Volete impegnarvi per
la Francia? Allora impegnatevi». La destra italiana è in grado di dire
questo? Allora lo dica .