Corriere 28.11.16
Gli esami che agitano l’Europa
di Franco Venturini
Tutti
sanno che tra pochi giorni in Italia si voterà per il referendum
costituzionale, ma quanti ricordano che il 4 dicembre segnerà anche
l’avvio di una stagione elettorale europea capace di sancire la morte
dell’Unione e di proiettarci nel mondo inesplorato di quella stanchezza
sistemica che ha già eletto Trump e fatto vincere la Brexit?
Il
bivio epocale che abbiamo di fronte (e che non si esaurisce nel nostro
referendum) è stato evocato dalle parti in lotta soltanto a scopi
propagandistici, qualcuno si è impadronito della vittoria di The Donald e
altri hanno provato a coprirsi le spalle criticando con parole forti
l’operato di Bruxelles. Ma in questo festival del provincialismo italico
sono mancate quasi sempre, e da parte di tutti, la consapevolezza della
partita che ci attende, la conoscenza delle sue implicazioni, la
previsione dei pericoli ai quali andiamo incontro. Eppure si tratta di
salvaguardare e dunque di riformare le nostre democrazie liberali, di
decidere se la globalizzazione è da buttare o da governare, di creare le
condizioni per una riscossa del ceto medio che ovunque guida la
contestazione, di capire se andiamo incontro a derive autoritarie e di
quale tipo. Dopo l’elezione di Trump la questione di sapere cosa
diventeremo riguarda tutto l’Occidente, non più soltanto l’Europa. Ma la
prima, la più elementare consapevolezza dei tempi che viviamo, la
possiamo e la dobbiamo trovare vicino a casa nostra.
Guardiamoci
intorno. Contemporaneamente al referendum italiano, in Austria si voterà
il 4 dicembre per la ripetizione del ballottaggio presidenziale.
Favorito Norbert Hofer, il candidato dell’estrema destra austriaca che
in caso di vittoria ha promesso (ma gli serve un premier amico, che oggi
non c’è) un referendum sull’appartenenza all’Unione. In marzo sarà la
volta dell’Olanda. Favorito il leader anti-Ue e anti-immigrati Geert
Wilders, attualmente sotto processo per incitazione all’odio. In maggio
voteranno i francesi per eleggere il nuovo Presidente, e sulla carta la
favorita è Marine Le Pen, che non ha bisogno di presentazioni. In
settembre si voterà in Germania, e Angela Merkel dovrebbe essere
confermata Cancelliere.
Una lettura analitica di questo calendario
risulta, da qualche giorno, meno allarmante. Malgrado le forti tensioni
che in Germania attraversano la società e il mondo politico, sarebbe
una grandissima sorpresa se dalle urne non arrivasse un nuovo mandato di
governo per Angela Merkel. Spesso troppo attendista, poco flessibile
sulle regole della sana finanza, ma con idee chiare sui nostri valori
comuni e sulle residue potenzialità dell’Europa. E poi, in Francia la
destra moderata ha deciso che il suo candidato all’Eliseo sarà François
Fillon. La vera posta delle primarie transalpine era di verificare la
forza di Sarkozy, sul quale non sarebbero mai confluiti i voti
socialisti. Con lui candidato al ballottaggio, Marine Le Pen avrebbe
avuto serie possibilità di vittoria. Con Fillon, e sarebbe stato lo
stesso con Juppé, un clamoroso successo del Front National è assai meno
probabile. E se reggeranno Berlino e Parigi, reggerà l’Europa. Reggerà
per cambiare, per portare a bordo i suoi popoli, perché altrimenti si
suiciderà definitivamente. Ma sarà stato guadagnato del tempo prezioso
per capire bene dove vuole andare l’America di Trump, per far avanzare
integrazioni necessarie come quella della difesa, per attenuare nei
limiti del possibile i traumi sociali che vengono attribuiti soltanto
alla globalizzazione anche se le loro cause sono più numerose e
complesse.
Si può ancora sperare, dunque. Questo fragile
ottimismo, autorizzato da quanto sta maturando a Berlino e a Parigi, non
deve però farci perdere di vista la prova suprema che attende tutto
l’Occidente, e il ruolo che potrà svolgere l’Italia. Washington e le
capitali europee, chiunque stia a Palazzo Chigi, continueranno a
chiederci quel che ci hanno sempre chiesto: stabilità, conti in ordine e
riforme strutturali. Ma l’anno elettorale europeo e i suoi rischi
dovrebbero suggerire una valutazione più radicale (e realistica) dei
nostri interessi nazionali. Se l’Unione Europea sarà travolta dai
responsi delle urne, l’Italia ne soffrirà inevitabilmente le conseguenze
in termini economici, finanziari e politici. Ma se invece prevarrà
l’ipotesi migliore, l’Unione non potrà rimanere quella di prima. Per
continuare a vivere dovrà rinnovarsi, integrarsi maggiormente e di
conseguenza rimpicciolirsi con l’adozione tardiva di un sistema di
«cerchi concentrici». Nulla assicura, in questo caso, che l’Italia possa
far parte di un gruppo ristretto centrale che non si identificherebbe
più, come di fatto avviene oggi, con l’Eurogruppo. L’Italia del debito
pubblico, della crescita anemica, della scarsa competitività, del
crimine organizzato e soprattutto della instabilità politica, rischia di
non risultare più indispensabile al motore europeo.
Su questa
insidia dovremmo sin d’ora allungare lo sguardo. Nella consapevolezza
che la nostra futura stabilità interna dipenderà dalle scelte delle
istituzioni e delle forze politiche dopo il referendum, non dalla
semplice vittoria dell’uno o dell’altro schieramento essendo entrambi
suscettibili di innescare processi destabilizzanti. Guardare oltre le
urne nostre e altrui per gestirne le conseguenze, questo è l’arduo esame
che l’Italia non sembra voler affrontare. Ma così si marcia verso la
bocciatura.