Corriere 26.11.16
Montanelli e Scalfari, il tandem mai partito
di Francesco Battistini
Senti
Indro, disse una sera Eugenio Scalfari nel salotto di Montanelli, «tu
vuoi fare un tuo quotidiano, io voglio farne uno mio: perché non lo
facciamo insieme?». Come usava negli anni Settanta, il ghiaccio
galleggiava nel whisky. E forse nella stanza: «Io e te?», sgranò gli
occhi il gran borghese del giornalismo. «Sì, tu e io», tenne il punto il
Barbapapà progressista. «E chi farebbe il direttore?». «Tu,
naturalmente. Indro, che domande…». «E tu che ruolo ti sei ritagliato?».
«Condirettore». Intrigante… «Ci voglio riflettere», prese un po’ di
tempo Cilindro. Che ci pensò davvero. E per qualche giorno. Finché non
alzò il telefono e sciolse la riserva: «Eugenio — disse —, faremmo un
pastrocchio e probabilmente finiremmo per litigare. Tu e io siamo troppo
diversi, camminiamo bene se ciascuno calza le proprie scarpe».
«La
Repubblica» di Montanelli, pastrocchio o miracolo chi lo sa, non nacque
mai. Quella di Scalfari, «vascello pirata che muoveva contro una flotta
d’incrociatori», celebra i suoi miracolosi quarant’anni nel denso
memoir d’un giornalista della prima ora, Franco Recanatesi. Insegnava il
fondatore Eugenio che «il titolo è importante quanto l’articolo» e
infatti La mattina andavamo in piazza Indipendenza (Cairo Editore)
riecheggia le serate in via Veneto del giovane Scalfari. Aneddoti,
incontri, dialoghi da romanzo. La tempesta perfetta nell’editoria di
oggi che ancora non c’era: in quelle migliaia di mattine, si costruì dal
nulla un vascello che prendeva il nome da un quotidiano della
rivoluzione portoghese e aspirò, spesso riuscendoci, a squinternare
l’editoria italiana e a impensierire il primato del «Corriere della
Sera».
«A chi lo vendi un giornale così?», domandava scettico
Giuseppe Turani a Scalfari, osservando la grafica povera dei primi
numeri. L’ha venduto eccome, risponde Recanatesi: partendo con pochi
mezzi, coi concorrenti che ironizzavano sulle notizie bucate («la
Ripubblica») e con finanziamenti iniziali massimo per tre anni. E poi
settimanalizzando il quotidiano, innovando un linguaggio, conquistando i
giovani e una sinistra smarrita, dialogando coi De Mita e osteggiando i
Craxi, benedicendo «la fortuna della P2» che sconvolse via Solferino,
tenendo insieme firme prestigiose e spesso gelose…
Qualcosa più
d’un giornale, dirà un giorno il successore Ezio Mauro, qualcosa meno
d’un partito. Qualcosa più d’una redazione — Recanatesi alterna
ragionamenti a sentimenti —, qualcosa di simile a un vascello liberal
dove tutti si vestivano bene «sia in guerra che al ballo» ( copyright
Sandro Viola). Il nostro segreto, disse una volta il Fondatore, è che
«non siamo più un giornale a immagine di chi lo dirige». Vero a metà: il
viaggio era di tutti ma, come dev’essere su una nave e nei giornali,
c’era un uomo solo al comando. A volte, solissimo. Racconta Recanatesi
che in uno dei giorni più difficili dell’era Br, per decidere se
pubblicare o no un comunicato da cui dipendeva la vita d’un ostaggio,
Eugenio si chiuse in una stanza. Isolato da tutti. Ad ascoltare
Beethoven. Fu l’unica volta che lo videro piangere. Il comunicato non
uscì, l’ostaggio si salvò. E da quel giorno la Settima sinfonia rimase,
per sempre, la preferita del Direttore.