Corriere 26.11.16
Carabinieri contro la svastica
I caduti, i deportati, gli inafferrabili. Storie di eroismo dopo l’8 settembre
di Andrea Galli
Spiare. Depistare. Fin dall’inizio, riducendo i margini di esitazione e i rischi di errore.
Come
nome di battaglia il maresciallo Antonio Raga scelse «Lapin», parola
francese che significa coniglio. Quasi a dire: io questo sono, un
codardo, oppure uno che viene in pace. E comunque non abbiate paura di
me.
Senza contare che Antonio Raga — anzi «Lapin» — già di suo era
affabile, tendeva alla battuta, coltivava l’arte di sdrammatizzare, di
spegnere anziché incendiare, e pur studiando molto si sforzava di essere
incolto e grossolano, travestendo di indolenza la sua proverbiale
calma.
Tutto questo non bastava. Serviva un timbro per sedurre
definitivamente i tedeschi e condurre al meglio la recita. Serviva un
soprannome adeguato, coerente. Sicché ecco a voi «Lapin», granitico
sardo capace di raggiungere sempre gli obiettivi che si era prefissato.
Voleva vivere cent’anni e c’è riuscito, a scanso di equivoci. Nato il 1°
gennaio 1907, si è spento il 20 aprile 2007. Un secolo abbondante.
Bonnanaro,
il paesino dove venne al mondo, in tempi fecondi duemila abitanti e
oggi appena novecento, è terra sassarese di vulcani e vigneti, ruvidezza
e dolcezza. «Lapin» — anzi Raga — fu figlio d’arte: il padre era
maresciallo dei carabinieri, l’Arma era di casa. E lo è rimasta anche
dopo, dato che uno dei figli di Antonio Raga, Francesco, è fedele
custode delle relazioni di servizio e delle gesta del papà. «Lapin» fu
il comandante del battaglione X, un manipolo di trentacinque carabinieri
partigiani che operarono nel Nordest, tra Veneto e Trentino Alto Adige.
Lassù al confine, non lontano da quell’alleato tedesco improvvisamente
divenuto, dopo l’8 settembre 1943, un nemico. Che in seguito
all’armistizio dilagò, invase e conquistò il nostro Paese.
Opporsi
non era nemmeno pensabile. Già il 9 settembre, nella stazione
ferroviaria di Fortezza, in provincia di Bolzano, nella valle
dell’Isarco, due finanzieri in attesa di un treno subirono l’aggressione
da parte di un gruppo di nazisti. Risposero al fuoco, un militare morì e
l’altro rimase gravemente ferito.
Le forze dell’ordine italiane,
nei piani tedeschi, andavano disarmate e prese prigioniere. In
particolare, come ovunque in Italia, la priorità era data ai
carabinieri. Erano i ricercati numero uno, dovevano essere bloccati
prima possibile. Molto seguiti dalla popolazione, c’era il rischio
concreto che si dessero alla macchia e si trasformassero in fastidiosi
avversari. Per di più già armati, capaci di sparare.
Nella notte
tra l’8 e il 9 settembre la Wehrmacht attaccò la caserma di Bolzano.
L’edificio era difeso da tre sezioni dei carabinieri con mortai, armi
automatiche e bombe a mano. Insufficienti però a fronteggiare un lungo
assedio. I tedeschi contavano sui carri armati Panzer VI Tiger, una
sessantina di tonnellate di peso: facevano paura soltanto a vederli. Per
tre ore, dalla mezzanotte, i carabinieri resistettero, uccidendo
quattro nemici. Verso le tre uno dei Panzer riuscì ad aprirsi un varco
nella caserma a colpi di cannone. I tedeschi penetrarono all’interno e
per altre due ore, al buio, fu corpo a corpo.
Dieci furono i
carabinieri colpiti, sei i morti: Roberto Baldoni, Giuseppe Cerveri,
Quinto Dri, Giovanni Falchi, Stefano Lela e Arturo Savoi. Tutti gli
altri furono deportati nei campi di concentramento.
Nelle stesse
ore cadeva anche la caserma di Trento. Vana fu l’opposizione
all’ingresso dei due carabinieri di guardia, Domenico Capannini e
Giuseppe Coclite. Non avevano che i loro moschetti. I tedeschi si
rifugiarono dietro un carro armato per coprire l’avanzata. Erano
superiori dieci volte nel numero e infinitamente nella potenza.
Ma
ovunque c’era un’evidente disparità tra le forze in campo. A
Bussolengo, in provincia di Verona, non fosse arrivata a rinforzo una
squadra di fanteria dell’esercito, la stazione dei carabinieri sarebbe
stata presto conquistata. Anche se alla lunga non si riuscì a evitare il
peggio. Il maresciallo maggiore Giuseppe Bellini rispose sprezzante a
un reparto di SS che gli aveva ordinato di arrendersi. «Se volete questa
caserma» disse Bellini «provate a prendervela».
I tedeschi
circondarono l’edificio e sferrarono il primo attacco. Furono respinti.
Partirono con una seconda offensiva e i carabinieri ebbero di nuovo la
meglio. Un terzo attacco venne rinviato dall’arrivo, alle spalle, dei
fanti del nostro esercito.
Le SS si ritirarono e Bellini aprì le
porte della caserma ai soldati. Avrebbe potuto benissimo approfittare
della tregua, ordinare l’abbandono della stazione, mettere in salvo se
stesso e i suoi uomini. Ma tutti scelsero di rimanere. E i tedeschi
tornarono.
Le SS inviate in Italia appartenevano alla 16a
divisione «Reichsführer», così chiamata in onore di Heinrich Himmler, il
loro comandante supremo. Quelle squadre speciali di soldati
esercitavano in tutto il mondo un fascino perverso che superava le
alleanze e gli schieramenti in campo. Nell’elenco delle SS troviamo
volontari albanesi, americani, bulgari, croati, danesi, estoni,
georgiani, indiani, irlandesi, italiani, spagnoli, turkmeni, uzbechi.
Erano guerrieri implacabili, assassini anche fuori dai campi di
battaglia. (…) A Bussolengo, le SS riuscirono a sfondare con un carro
armato un muro della stazione dei carabinieri comandata dal maresciallo
maggiore Bellini. La battaglia infuriò per i corridoi e le stanze: una
resistenza estrema, fino alla resa obbligata.
I carabinieri e i
fanti dell’esercito vennero trasferiti nella scuola media del paese,
trasformata in prigione. Ma erano duri a vendere la pelle. Evasero.
L’aula della scuola adibita a cella aveva due finestre e una fu forzata.
All’esterno c’era una sentinella di guardia. I carabinieri la
stordirono con un pugno. Non ebbe nemmeno il tempo di gridare. Si
accasciò e i fuggitivi presero il sentiero per la montagna.
Le SS
scatenarono una caccia all’uomo. Si servirono di cani lupo allenati a
trovare la preda nel raggio di chilometri. Il maresciallo maggiore
Bellini venne catturato nelle vicinanze di un treno, in partenza per
Trento. Lo disarmarono. Fu deportato.
L’incontro di presentazione lunedì a Milano
Il
libro di Andrea Galli Carabinieri per la libertà (Mondadori) sarà
presentato a Milano lunedì 28 novembre, alle ore 11, presso l’UniCredit
Pavilion (piazza Gae Aulenti, 10). Assieme all’autore interverranno: lo
storico Paolo Mieli, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, il giornalista del
«Corriere» Antonio D’Orrico, il generale di divisione dei carabinieri
Enzo Bernardini. L’incontro, moderato da Bruno Vespa, si svolge in
collaborazione con UniCredit. Oltre al comandante dell’Arma dei
carabinieri, generale di corpo d’armata Tullio Del Sette, assisteranno
alla presentazione 300 studenti delle scuole milanesi. (nell’immagine un
quadro di Vittorio Pisani dedicato al carabiniere Salvo D’Acquisto, che
si sacrificò nel 1943 per salvare alcuni ostaggi dei nazisti)