Corriere 24.11.16
Italiani all’estero votare, ma dove?
risponde Sergio Romano
Sono
un italiano residente a Parigi ormai da 31 anni, e iscritto nelle liste
Aire. Mi rivolgo a lei per dare un consiglio a Bruxelles. Quando un
cittadino della Comunità europea vive in un altro Stato della comunità,
deve aver diritto di voto nello Stato dove vive, lavora e paga le tasse
perché è lì che ha la propria vita. Viceversa è incomprensibile che
mantenga il diritto di voto presso la sua nazione di nascita
snaturandone il risultato a svantaggio di coloro che lì ci vivono. Lo
riacquisterà il giorno che rientrerà e automaticamente lo perderà nella
nazione che prima lo ha ospitato.
Gavino Dessi
Le chiedo se veramente sia stato utile dare il voto agli italiani all’estero,
quando hanno bisogno di essere informati direttamente dal governo
su questioni riguardanti un referendum.
Alla luce poi di vicende poco chiare del passato legate alle modalità di voto,
credo sia giunto il momento di rivedere seriamente questo allargamento
dell’elettorato che sembra sempre di più una mossa studiata per interessi
di partito più che per dare l’opportunità di decidere le sorti di un paese in
cui non vivono e non pagano le tasse.
Ardengo Alebardi
Cari lettori,
Le
vostre riflessioni sono complementari e altrettanto interessanti. Forse
i tempi non sono ancora maturi per la proposta di Gavino Dessi, ma è
certamente giusto che il diritto di voto dipenda dalla residenza. In una
Unione Europea in cui lo «ius sanguinis» è destinato a diventare una
anacronistica reliquia di passati nazionalismi, è giusto che un
cittadino dell’Ue voti per i problemi locali là dove sono i suoi
interessi prevalenti, e che tutti, dovunque vivano, votino insieme per
le istituzioni comuni. In questa Unione incompleta possono esservi
ancora casi di doppia cittadinanza, ma non dovremmo mai rinunciare al
traguardo di una cittadinanza comune per tutti coloro che appartengono a
uno Stato federale.
Anche per gli italiani
«di stirpe» valgono considerazioni analoghe. Non è né giusto né
opportuno, a mio avviso, che il voto sia garantito a chi si è trasferito
permanentemente in un altro Paese e non abbia più obblighi fiscali
verso la patria di origine. Il suo voto diventa, in queste circostanze,
un gesto gratuito, puramente ideologico e sentimentale, privo di
qualsiasi conseguenza per la sua persona e per il suo futuro.
Non
è sorprendente che la legge sia stata fermamente voluta da un
parlamentare nazionalista di origini fasciste, Mirko Tremaglia. È
sorprendente che sia stata votata, per calcoli elettorali (spesso
sbagliati), anche da partiti che hanno una cultura europea e
internazionalista.
Il rimedio esiste ed è
stato adottato da altri Paesi che sono in una situazione simile a quella
dell’Italia: fissare un limite di tempo (mediamente venti anni) al di
là del quale il cittadino emigrato non ha più il diritto di votare nel
Paese di origine.