Corriere 20.11.16
I paradossi della sfida di dicembre
di Antonio Polito
Tra
le motivazioni del No al referendum compare nei sondaggi anche la
volontà di «difendere la Costituzione». Forse abbiamo sottovalutato
questo sentimento, interpretando la grande divisione dell’elettorato
italiano secondo linee esclusivamente partigiane, pro o contro Renzi.
Non c’è dubbio che il cuore politico della battaglia in corso sarà il
giudizio sull’intero operato del governo, che porta ormai evidenti sul
volto i segni di affaticamento dell’età, mille giorni in carica. E non
c’è dubbio che gli italiani siano angosciati, forse come mai prima nella
storia della Repubblica, a causa della grande stagnazione in cui sembra
impantanato il Paese, con un reddito pro capite che resta inferiore, e
per chissà quanto ancora, ai livelli del 2007, quando cominciò la grande
recessione. Però sbaglieremmo a credere che chi andrà a votare sia
ignaro o indifferente al merito della questione. Magari distratti sui
dettagli di una materia che solo pochi specialisti padroneggiano, gli
elettori hanno in ogni caso capito benissimo che devono scegliere tra
chi vuole cambiare e chi vuole conservare la nostra Carta fondamentale. E
questa scelta peserà, nel senso che sarà forse decisiva, farà cioè la
differenza rispetto a coloro che voteranno per schieramento politico,
pro o contro il governo. Ecco quindi che a sorpresa, dopo decenni di
vasto consenso nella classe politica e nell’establishment per una
riforma del testo del 1948, almeno nella seconda parte, fa la sua
apparizione una sorta di «patriottismo costituzionale» che forse non ci
aspettavamo.
D ubito che si tratti di una licenza poetica in tempi
così prosaici, di un ideale astratto. È probabile invece che le sue
motivazioni siano non meno concrete. Si può presumere cioè che in
momenti di smarrimento e crisi alcune garanzie di protezione da un
potere politico spesso ondivago e intrusivo, magari cercate nella
tradizione dei padri, possano apparire rassicuranti. Si spiega così,
oltre che col valore dell’uomo che ne riveste il ruolo, anche la fiducia
crescente che gli italiani ripongono nella Presidenza della Repubblica.
Non è dunque un fenomeno totalmente ascrivibile alla retorica, peraltro
già abbandonata dal suo cantore Benigni, della «Costituzione più bella
del mondo». Né è un comportamento, per così dire, solo «di sinistra»,
anzi: come già in America, dove da tempo è invece la destra radicale a
intestarsi la difesa dei diritti costituzionali contro le trame di
Washington, si diffonde tra strati tutt’altro che politicizzati. E
infine non può essere definito un atteggiamento di pura conservazione,
perché è spesso condito con la rabbia della cosiddetta «antipolitica».
Si
determina così un doppio paradosso. Il primo: la Carta che fu scritta
dai partiti usciti dalla Resistenza può essere ora usata da una parte
cospicua dell’opinione pubblica come strumento di difesa dai partiti di
oggi, di cui evidentemente non ci si fida, come se essa potesse essere
il baluardo ultimo di diritti sociali o politici che prima o poi
qualcuno vorrà toccare. Si è radicato tra la gente, ovviamente non solo
in Italia, un sospetto pregiudiziale verso le innovazioni, memore di
tutte quelle presentate prima come salvifiche e poi condannate come
capri espiatori della crisi. Basti pensare alla polemica sull’euro, o
sulle ristrutturazioni bancarie. In questo senso non rassicura certo la
vicenda dell’Italicum, legge derubricata nel giro di pochi mesi da
soluzione definitiva dei problemi italiani e anche europei («ce la
copieranno tutti», aveva pronosticato Renzi), a pasticcio da correggere
al più presto. Il secondo paradosso è che molti eredi di chi scrisse
quella Carta, post democristiani e post comunisti confluiti nel Pd, la
vogliono ora cambiare, mentre gli eredi di chi era contro o fuori, la
destra, e tutti quelli che sono venuti dopo, i Cinquestelle, si battono
per non toccarla.
Sembra chiaro che su questo punto, e cioè sulla
necessità stessa di cambiare la Costituzione prima ancora che sul modo
in cui è stata cambiata, il messaggio dei promotori della riforma non ha
finora sfondato nell’opinione pubblica. Come se il «decisionismo», una
volta così popolare, ora fosse considerato un pericolo. Prima e dopo il
voto, è dunque essenziale per i riformatori affrontare il tema del
rapporto tra popolo e Costituzione che sembrava finito in soffitta. La
Carta di settanta anni fa, evidentemente, non è percepita solo come una
declamazione di diritti e una sequela di disposizioni tecniche, ma anche
come uno strumento di coesione nazionale. E questo referendum può avere
il merito di avercelo ricordato, aprendo un dibattito nella nazione sui
nostri prossimi settanta anni.