Corriere 18.11.16
A sinistra la paralisi delle idee
di Paolo Mieli
La
vittoria di Donald Trump ha colto alla sprovvista il mondo intero ma in
particolare la sinistra d’Europa che è rimasta come ipnotizzata
dall’accaduto. Al risveglio, poi, nessun esponente socialista si è
sentito in dovere di esprimere dubbi su quel che aveva sostenuto fino al
giorno prima. Neanche un sia pur minimo ripensamento. Peggio: tutti, ma
proprio tutti, hanno trovato nell’accaduto conferma di quel che erano
andati dicendo nei mesi e negli anni scorsi. Se ne potrebbe dedurre che i
socialisti di tutto il mondo non siano interessati a questo genere di
sorprese.
La spiegazione è semplice: evidentemente hanno perso il
senso della loro missione. Sostiene il socialista Ricardo Lagos,
presidente in Cile dal 2000 al 2006, che la sinistra in Sud America è
vittima del proprio successo. I tassi di crescita ottenuti grazie ai
corsi del petrolio, al prezzo del rame o di altre merci avevano permesso
di ridurre la povertà dal 45 al 34 per cento: una rivoluzione.
Oggi
quella stessa sinistra non è più in grado di rispondere alle nuove
aspettative, create proprio da quel balzo in avanti. Gli elettori
pensano che un’agenda politica di successo debba essere riproposta in
eterno. Ma questo non è possibile. Il discorso vale anche per l’Europa
afflitta dalla crisi del welfare. Ed ecco così che i partiti della
sinistra tradizionale finiscono nel caos.
I laburisti inglesi
pensano a un difficile rilancio sotto la guida di Jeremy Corbin,
ferocemente contestato dal gruppo parlamentare. Quelli spagnoli di Pedro
Sánchez sono stati messi ko dal pur legittimo lavoro ai fianchi di
Podemos, sicché si sono visti costretti — dopo una crisi durata trecento
giorni (e le dimissioni dello stesso Sánchez) — a dare luce verde al
ritorno di Mariano Rajoy alla guida di un governo legittimato dal
Parlamento. Resistono i lusitani che guidano il Portogallo con Antonio
Costa; ma alle Presidenziali di dieci mesi fa ha agevolmente vinto (con
il 52% dei voti al primo turno) il giornalista televisivo di
centrodestra Marcelo Rebelo de Sousa.
In Grecia Alexis Tsipras è
andato al potere sulle rovine del Pasok ed è adesso fortemente insidiato
dal partito di centrodestra (Nea Dimokratia) che, a differenza di
quello socialista, è rimasto saldamente in piedi. I socialdemocratici
tedeschi al momento lucrano — in stato di subalternità — sulla
coalizione con Angela Merkel e hanno appena ottenuto la prestigiosa
ancorché ininfluente poltrona di presidente della Repubblica per il loro
Frank-Walter Steinmeier. Le sorti del Partito democratico italiano, uno
dei pochi che ha il proprio leader alla guida del governo, sono appese
al referendum del prossimo 4 dicembre. Quelle del Partito socialista di
François Hollande appaiono invece compromesse. Secondo Jean-Marie
Colombani la sinistra francese ha ormai metabolizzato non solo la
prospettiva di una sconfitta, ma anche quella di «una vera e propria
retrocessione, destinata a durare».
E ad Est? Il socialista
ungherese Ferenc Gyurcsany, al governo dal 2004 al 2009, adesso, anche
dopo che Viktor Orbán ha mancato il quorum al referendum antimigranti
del 2 ottobre, calcola che il Fidesz di Orbán può contare su due milioni
di elettori, Jobbik di Gabor Vona ne ha circa un milione mentre il
totale dei partiti democratici, socialisti compresi, arriva poco sopra
il milione e mezzo. Sicché è illusoria la prospettiva di battere Orbán,
che alle elezioni del 2014 si è attestato sopra il 45% dei voti. Ne
consegue che, per ciò che è implicito nei calcoli di Gyurcsany, alcuni
partiti socialisti si vanno «orbanizzando». Il cancelliere austriaco,
Christian Kern, definisce «comprensibile» la politica ungherese sui
rifugiati forse perché dal 4 dicembre dovrà convivere con l’estrema
destra di Norbert Hofer. Il presidente della Repubblica ceca Milos Zeman
si dice «favorevole alla deportazione di tutti i migranti economici
nelle isole greche disabitate». Il primo ministro slovacco Robert Fico
guarda con simpatia a Vladimir Putin. Così come i recenti vincitori
delle elezioni in Moldova (Igor Dodin) e in Bulgaria (il generale Rumen
Radev). Complicata la vita di socialisti, laburisti e democratici
europei: i nostalgici della grande stagione di Brandt, Palme e
Mitterrand possono giusto consolarsi con l’Albania saldamente nelle mani
di Edi Rama.
Uno studioso che da tempo ha messo sotto
osservazione questo fenomeno, Marc Lazar, ritiene che la sinistra
europea si sia dimostrata incapace di comprendere la portata delle
mutazioni in atto anche perché «impegolata nei suoi conflitti interni e
nelle sue rivalità di leadership». Sarebbe necessario, secondo lui,
deporre le armi usate in quegli scontri interni e innalzare un cordone
sanitario come si è fatto a Stoccolma dove, per arginare una formazione
populistica estremista, i partiti al governo — dalla sinistra alla
destra passando dai Verdi — hanno stretto un accordo. Ma è lui il primo
ad aggiungere che queste grandi coalizioni nazionali rischiano di dare
una spinta al partito escluso, il quale si può erigere a vittima
denunciando lo stigma e imporsi come unico rappresentante di
un’alternativa radicale. E siamo tornati a Trump, cioè al punto di
partenza. Il quale Trump forse non darà sponda alle formazioni europee
antisistema ma certo non appoggerà per principio — come facevano i suoi
predecessori — i partiti «di sistema».
In attesa di fermarsi a
riflettere su questa non facile situazione, i dirigenti dei partiti di
cui stiamo parlando, come osserva Lazar, si scannano tra loro e al loro
interno. È già successo. Pur senza voler fare nessun paragone tra i
partiti fascisti di allora e quelli populisti di oggi, stando al tasso
di litigiosità della sinistra si può osservare che mentre in Europa
l’onda nera montava già da qualche anno, i comunisti — in nome della
teoria del socialfascismo — iniziarono a scaricare accuse di incredibile
violenza contro i socialisti. I quali, sostenne il finlandese Otto
Wille Kuusinen al decimo Plenum dell’Internazionale (luglio 1929), «le
azioni fasciste non le fanno apertamente ma dietro una cortina
fumogena». Tali accuse non erano rivolte solo agli odiati
socialdemocratici tedeschi, ma estese da un altro esponente comunista di
primo piano, Dmitri Manuilskij, contro il britannico Ramsay MacDonald
che aveva appena portato i laburisti al potere. In quel contesto Palmiro
Togliatti colse l’occasione per insinuare che il sindacalista
socialista Bruno Buozzi (esule in Francia e futuro martire
dell’occupazione nazista) fosse «un mercante che patteggia» con Benito
Mussolini.
Almeno, però, queste dispute — se così le si può
chiamare — mettevano a confronto due parti di una stessa famiglia,
munite entrambe di un forte, riconoscibile, coerente credo ideologico.
Oggi neanche un minimo comun denominatore, né una ragionevole
prospettiva politica, sono individuabili tra i leader impegnati a
mandare in frantumi quel poco che resta della sinistra europea. Se si
fermassero solo un attimo a riflettere, forse la prima cosa che verrebbe
loro in mente sarebbe di sospendere (come nell’estate del 1935) le
guerre fratricide. Niente di risolutivo, ma potrebbe rivelarsi una buona
idea.