mercoledì 16 novembre 2016

Corriere 16.11.16
Il peccato originale del voto estero
di Massimo Franco

La prima inchiesta della magistratura sulla regolarità del voto degli italiani all’estero è stata archiviata da tempo, nell’indifferenza generale, dopo anni di indagini. Il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, ha potuto accertare che brogli elettorali in Argentina c’erano stati; e che la legge mostrava diversi «buchi neri». Ma non gli è stato possibile individuare chi ne fosse materialmente responsabile. In un’altra indagine, riguardante un senatore del PdL, arrivò invece la condanna. Ma è politicamente che il tema incombe come una piccola bomba a orologeria sul referendum del 4 dicembre. Se il Sì o il No vincessero di misura e i consensi per corrispondenza si rivelassero decisivi, il capitolo giudiziario si potrebbe riaprire.
Soprattutto, si avrebbero conseguenze istituzionali che i vertici dello Stato hanno temuto in tutti questi anni. Pochi sono inclini a parlarne, ma il pericolo che si profila è di una «Costituzione sotto ricorso». Sarebbe l’esito finale di una campagna referendaria avvelenata e in grado di sprigionare altre tossine. Ma anche di un immobilismo dei partiti e delle istituzioni su una legge nata con le migliori intenzioni e ambizioni nel 2001; e rivelatasi fin dall’inizio vulnerabile agli abusi e alle distorsioni più smaccati. Esiste una casistica di migliaia di schede firmate da una sola persona, indirizzi sbagliati, cittadinanze estere fittizie, incetta di voti.
La gaffe diplomatica della lettera mandata nei giorni scorsi agli elettori israeliani a Gerusalemme sotto la dicitura «Palestina» è solo la conferma di un meccanismo con falle vistose. Sono state segnalate da inchieste della magistratura e da rapporti come quello stilato appena due giorni dopo le elezioni del 2013 dall’ambasciatrice Cristina Ravaglia, e mandato ai vertici delle istituzioni. La verità è che però nessuno ha fatto nulla, né prima né dopo. La legge voluta dal missino Mirko Tremaglia, cultore dello ius sanguinis , del diritto del sangue caro alla destra, fu celebrata da tutti o quasi.
Quando fu approvata assecondando il mito degli «italiani nel mondo», il consenso fu larghissimo e trasversale: benché si chiedesse il voto a chi non risiedeva in Italia magari da decenni, né pagava le tasse lì. Si sono succedute maggioranze di destra e di sinistra che hanno usato quel voto in Parlamento. Da subito, però, la legge Tremaglia ha avuto vita controversa: tanto da fargli dire nel 2008 che andava cambiata. Altri hanno avvertito che andava «meditata», altri ancora che bisognava abolirla; ma quasi sempre a bassa voce, per non sfidare l’impopolarità e non creare imbarazzi.
Negli anni, inchieste e ricorsi si sono moltiplicati. Il fatto che il numero dei voti per corrispondenza sia calato progressivamente può avere provocato una certa disattenzione. Ma stavolta c’è una novità: una riforma profonda della Costituzione. E poi c’è l’attivismo del governo. L’impegno di Matteo Renzi su quel fronte ha fatto scattare le reazioni. L’investimento deciso su quei quattro milioni e più di potenziali elettori ha rianimato quanti finora non si erano preoccupati né scandalizzati delle perplessità sul voto all’estero. Quello renziano è stato vissuto come un tentativo di trovare altrove i consensi che i sondaggi tendono a assegnare in maggioranza al No.
E i suoi avversari, sapendo che la partita è aperta, si sono avventati su un tema che nessuno per un quindicennio aveva voluto affrontare. «I voti degli italiani all’estero sono un gran boccone per Renzi ed il suo governo», ha scritto ieri sul suo blog Beppe Grillo, capo del M5S. In realtà, lo è anche per il suo movimento e per il centrodestra: non a caso tutti vanno a caccia di voti all’estero; e in passato le irregolarità sono state trasversali. Rimane la preoccupazione che dopo il 4 dicembre il risultato referendario sia strumentalizzato, accreditando una Costituzione «inquinata»; e magari indebolita anche da un’affluenza alle urne bassa, perché il quorum del cinquanta più uno per cento dei votanti non è necessario, nei referendum consultivi.
Il dettaglio singolare, tuttavia, è che i comitati del No hanno contestato l’iniziativa di Renzi, chiedendo le liste degli elettori all’estero per poterli raggiungere. Ma la normativa in sé non è stata contestata. L’allarme sui possibili brogli è stato suonato dopo, sulla scia della polemica. Rimane più che il dubbio di una questione ingigantita per mettere in difficoltà il governo, sfruttando i suoi errori; e come strategia post-4 dicembre. I deputati del Pd eletti per corrispondenza parlano di attacco al voto dei cittadini all’estero.
Ricordano che un’offensiva simile ci fu nel 2006, per la vittoria dell’Ulivo; e di nuovo nel 2013, quando grazie a quelle schede «straniere» il Pd divenne il primo partito. La questione viene ripresa, accusano, dal fronte del No in maniera strumentale. Si potrebbe aggiungere: e preventivo, creando un clima di sospetto diffuso. «Mi pare che gli italiani all’estero abbiano sempre votato con regolarità e nessuno ha messo mai in discussione il risultato dal voto estero», ha dichiarato seccamente il ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
La risposta suona un po’ troppo d’ufficio: un attacco agli elettori italiani all’estero c’è stato. Ma è venuto da più parti: da chi ha sottovalutato o perfino usato a lungo le ambiguità e le debolezze di una legge che sembra incapace di garantire a tutti un voto «personale, libero e segreto», secondo la Costituzione. C’è solo da sperare che dopo il 4 dicembre la questione non venga usata pretestuosamente : chiunque vinca o perda.