mercoledì 16 novembre 2016

Corriere 16.11.16
L’esercito a Milano non è la soluzione, ma un segnale politico
di Giangiacomo Schiavi

Esercito è una parola che fa notizia, perché lascia pensare a una guerra in corso o imminente contro qualcuno, ma può essere letta anche come un segnale politico di discontinuità se la pronuncia un sindaco di sinistra nella città della narrazione felice, davanti alla presidente della Camera Laura Boldrini che invita alla collaborazione con le comunità straniere, mentre le bande di latinos si sgozzano intorno a piazzale Loreto. Così, con la richiesta dei militari per presidiare zone sensibili e quartieri a rischio, il sindaco di Milano Beppe Sala ha rotto un tabù nella sua maggioranza e spiazzato il centrodestra, interpretando più l’umore dei cittadini che la linea politicamente corretta del suo predecessore Giuliano Pisapia. Si è intestato, pur con distinguo e puntualizzazioni, un tema caro ai suoi oppositori, che sulle divise in strada hanno fatto in passato comizi e campagne elettorali: da Gabriele Albertini a Letizia Moratti, che addirittura ha sfilato con i residenti e con le fiaccole contro il governo Prodi, e successivamente proclamato il coprifuoco.
Ma non c’è nessuna Apocalisse a Milano: non ci sono i nove morti in nove giorni del terribile gennaio 1999, quando l’emergenza criminalità diventò questione nazionale e l’esercito arrivò davvero, con la centrale unica delle forze dell’ordine e un massiccio invio di rinforzi; non c’è il clima surriscaldato del 2006, con i cortei del centrodestra e le rivolte da banlieu nella Chinatown di Paolo Sarpi, ostile ai nuovi regolamenti comunali sul carico e lo scarico delle merci; non c’è nemmeno l’aria avvelenata del 2010, quando in via Padova, dopo un accoltellamento mortale e una rissa tra immigrati, venne sequestrato un autobus e Matteo Salvini invocò un blitz e subito dopo usò la parola «rastrellamento». Oggi c’è la preoccupazione diffusa di una sottovalutazione del problema, la sensazione di non essere ascoltati. E in epoca di «trumpismo» e populismo, il messaggio che viene da Milano attraverso le parole del suo sindaco, al netto di ogni eccesso, può essere questo: la sicurezza non è di destra o di sinistra, semplicemente non si può indietreggiare, perché in certe zone, la sera, la gente ha paura.
Degrado, spaccio, prostituzione, abusivismo, lotte tra bande alimentano proteste e contestazioni sottotraccia, in una città che negli ultimi mesi è apparsa arroccata sulla linea dell’accoglienza. Solidarietà e generosità restano tratti distintivi, il meglio che si può offrire a chi ha perso tutto, ma oltre agli immigrati c’è un’altra Milano che chiede aiuto. Troppi profughi e clandestini nelle strade, sotto i ponti, nei tunnel abbandonati, nelle vie intorno alla Stazione, nei tuguri che affittano in nero, e poche risposte del governo per restituire tranquillità a chi si sente sotto assedio. Troppe luci intorno al centro, nella Milano attrattiva e glamour, che si declina sempre in positivo, che piace, è innovativa e internazionale, ma ancora vaghe promesse per le periferie, dove il disagio incrocia il degrado e la richiesta di mimetiche in strada, di divise, poliziotti o vigili di quartiere è sentita dai residenti e dai comitati di zona.
Milano è una città «duale», come scrivono alcuni sociologi, con una vetrina da esporre ma anche tanta polvere nascosta sotto il tappeto. Cresce la richiesta di porte blindate, di inferriate ai piani bassi, di allarmi nei condomini. I dati di Questura e Prefettura non presentano cifre allarmistiche, i grossi reati sono in calo, ma furti e violenze a volte nemmeno denunciati, creano grumi di malessere. In certe periferie, oltre il volontariato e le parrocchie, i riferimenti per la sicurezza sono sempre troppo pochi. Anche i vigili sarebbero un baluardo, un presidio di legalità. Ma troppo spesso non si vedono.
L’esercito non è una soluzione, la via della sicurezza passa per altro. Bisogna ridare dignità a chi l’ha persa, portare un riequilibrio abitativo, contrastare l’abusivismo, garantire la legalità. Temi battuti e ribattuti in campagna elettorale, forse più dai competitor, Parisi e Passera, che dall’attuale sindaco. «Non facciamo della sicurezza il punto centrale della città», ha precisato Sala. Ma con una parola lunedì sera ha riacceso i riflettori sull’altra Milano, quella che lui vuole cambiare: una periferia che non deve più essere chiamata così.