Corriere 16.11.16
Il debito cattivo maestro
di Ferruccio de Bortoli
Il
mondo è così pieno di debiti pubblici e privati (quasi due volte e
mezzo il prodotto globale) che farne qualcuno in più non dovrebbe essere
un dramma. Dipende da chi li fa però. Il neoeletto presidente degli
Stati Uniti, Donald Trump, non sembra particolarmente preoccupato
dall’indebitamento americano. La promessa riduzione delle tasse e il
contemporaneo aumento delle spese d’investimento per infrastrutture
potrebbero portarlo a «livelli italiani». La discussione sulla sua
sostenibilità — e stiamo parlando della prima, anche se forse ancora per
poco, economia al mondo — è comunque aperta. L’economista Martin
Feldstein aveva suonato l’allarme per tempo: urgente un piano di
rientro. Secondo il Congresso, il debito tendenziale americano,oggi al
105 per cento, in assenza di interventi, toccherebbe quota 141 nel 2046.
Con Trump i calcoli vanno tutti rifatti. In peggio.
I mercati
guardano al nostro debito pubblico con una certa preoccupazione, come
dimostrano le tensioni sullo spread degli ultimi giorni. Esagerano?
Vediamo. Ci si può consolare sul fatto che il valore assoluto, oltre
2.212 miliardi, è persino sceso leggermente in settembre, ma è comunque
cresciuto di 40 miliardi quest’anno. Solo poco più del 30 per cento dei
titoli pubblici è collocato all’estero. Il debito implicito, che calcola
anche i costi futuri di pensioni e sanità, ha progressioni inferiori a
quelle di altri Paesi, Germania compresa. Il risparmio delle famiglie,
immobili esclusi, è di quasi 4 mila miliardi.
M a il rapporto del
debito pubblico con il Prodotto interno lordo è stato, nel 2015, del
132,7 per cento. Cresce da nove anni, nonostante i ripetuti impegni del
governo a ridurlo. La commissione Ue lo stima in salita anche
quest’anno. Le ultime rilevazioni Istat sul Pil (più 0,9 per cento su
base annua) sono confortanti, ma non dobbiamo dimenticare che il
Documento di economia e finanza (Def) di aprile lo prevedeva all’1,2 per
cento.
«Nonostante la crescita sia ancora insufficiente, il dato
del debito è però stabilizzato — spiega il sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini — e l’importante è dimostrare
una tendenza solida, migliorare la qualità della spesa, più per
investimenti, come previsto dalla legge di Bilancio. E soprattutto,
realizzare tutte le riforme promesse». Nannicini concorda su un’anomalia
del tutto italiana: la sottovalutazione culturale del peso del debito.
Il governo non è esente da critiche. Ma non solo il governo. Ne parliamo
poco, a differenza degli stranieri che lo temono forse con pregiudizio
eccessivo. È come se non ci appartenesse, come se lo avessero contratto
altri. L’uso frequente dell’aggettivo storico è un modo elegante per
liberarci di ogni responsabilità. Il fatto che la titolarità sia quasi
tutta in capo allo Stato ha una funzione assolutoria per le
amministrazioni locali. È irrilevante, nel dibattito politico e, forse,
nella coscienza nazionale, se il debito è fatto per coprire spese
correnti, come pensioni e stipendi, anziché investimenti. Il debito
cattivo cattura consensi, quello buono no. Forse li fa perdere. I
giovani che lo erediteranno tutto, buono e cattivo, esprimono il loro
disagio andandosene. E non hanno torto.
Il costo del nostro debito
è sceso al 3,1 per cento grazie alla politica monetaria della Banca
centrale europea. Paghiamo tassi, in qualche caso negativi, che come
grandi debitori non meritiamo affatto. Scambiamo una condizione
eccezionale, il quantitative easing, per una normalità acquisita.
L’endemica irresponsabilità di molti centri di spesa e l’italica
convinzione che vi sia sempre una torta da dividere alimentano i
peggiori pregiudizi esteri, gonfiano gli appetiti degli speculatori.
Appena
entrati nell’euro, godemmo di un inaspettato periodo di grazia sul
versante del servizio del debito. Sprecato. Anziché sfruttare il
risparmio sugli interessi per contenere il debito, lo si alimentò per
finanziare la spesa corrente. La lezione si è dispersa nel conformismo
delle spiegazioni di comodo. Oggi rischiamo di ripetere gli stessi
errori. Un po’ di flessibilità nei conti per irrobustire gli
investimenti (anche per la ricostruzione post terremoto) è necessaria,
la politica dei bonus quantomeno dubbia. La linea accomodante della Bce
avrà prima o poi un termine. E un eventuale rialzo dei tassi, magari
anticipato dalle scelte fiscalmente espansive della presidenza Trump,
potrebbe dischiudere scenari di fragilità sui mercati e riproporre il
tema del rischio Italia. Il ripetersi di condizioni simili a quelle del
2011 non è del tutto improbabile. Se dovesse accadere non avremmo
nemmeno più la riserva di una riforma delle pensioni, che fu brutale ma
efficace. Ecco perché un segnale sull’importanza della gestione del
debito sarebbe opportuno. L’avanzo primario, la differenza tra entrate e
uscite al netto degli interessi, è attualmente in discesa, intorno
all’1,5 per cento. Un impegno a mantenerlo non inferiore al 2 per cento
dimostrerebbe a mercati infidi e partner sospettosi che, nel tentativo
di riprendere seppur a fatica la strada della ripresa, non abbiamo perso
il senso della misura, la nozione del rigore. In vista del referendum
del 4 dicembre, avrebbe poi anche il non disprezzabile effetto di una
misura precauzionale.