Corriere 15.11.16
Lo spread sale. E questa volta non è (solo) colpa nostra
di Federico Fubini
Nessuno
oggi sa dire esattamente verso dove, ma un punto di svolta è arrivato.
Negli eventi concentrati nelle ultime ore, esso è emerso quasi con
violenza. Da Atene Barack Obama ha detto che è interesse di tutti che la
Grecia resti nell’area euro. Nel frattempo da New York Donald Trump si è
fatto fotografare insieme a un nemico giurato dell’Unione Europea,
Nigel Farage, mentre il suo «stratega» Stephen Bannon invitava negli
Stati Uniti Marion Le Pen, l’ultima leader della dinastia della destra
euroscettica francese.
E vorrà pur dire qualcosa per la
credibilità dell’unione monetaria che il presidente uscente degli Stati
Uniti la difenda fino all’ultimo, mentre il presidente entrante a quanto
pare è più a suo agio con coloro che vorrebbero disgregare l’Europa.
La
tenuta dell’euro riparte anche da qui. Certo non è solo per questo che
ieri i rendimenti dei titoli di Stato italiani sono tornati a salire
bruscamente, insieme a quelli di tutta l’Europa del Sud. Il
differenziale di rendimento fra titoli tedeschi e italiani a scadenze
decennali — lo spread più seguito — si è impennato fino a oltre 180
punti (1,80%) prima di calare un po’. Oggi quelle obbligazioni del
Tesoro rendono circa il 2,1%, già più di quanto messo in bilancio dal
governo per il costo dei suoi finanziamenti a lungo termine nel 2017.
«Aumenta lo spread? Ovvio, se c’è incertezza aumenta. Non è una
minaccia, è una constatazione», ha detto ieri il premier Matteo Renzi.
Non
c’è niente di puramente unico dell’Italia, in questo crollo dei prezzi e
nella corrispondente impennata dei rendimenti dei titoli di debito
pubblico e privato. Sta accadendo in tutto il mondo, a partire dagli
Stati Uniti. La prospettiva che Trump espella tre milioni di stranieri
oggi disposti a lavorare per pochi dollari, ostacoli l’import dal resto
del mondo e finanzi un piano di infrastrutture in deficit fa credere ai
mercati che in America stia tornando un po’ d’inflazione. Poco importa
che scelte di questo tipo rischino semmai di esportare deflazione verso
le altre economie, come velatamente notato ieri dal vicepresidente della
Banca centrale europea Vitòr Constancio: «Dobbiamo essere cauti nel
tirare precipitose conclusioni positive — ha detto — di fronte
all’aumento della crescita nel contesto di politiche che mettono
l’America prima di tutto». Poco importa, comunque, perché i titoli di
Stato americani restano le fondamenta del mercato mondiale del debito e,
se il loro prezzo cala, essi portano giù tutto il resto della
struttura. Quando i rendimenti si alzano in America (sui titoli
decennali, dall’1,75% al 2,22% in pochi giorni), il costo del debito
sale ovunque nel mondo.
Specifico dell’area euro è invece che
l’aumento dei tassi di mercato risulta più forte nei Paesi considerati
più fragili in termini economici o politici: Portogallo, Spagna,
Francia, Italia e Grecia; non lo è nei Paesi potenzialmente più vicini a
un ritorno di sana inflazione da ripresa, Germania o Olanda. Per quanto
omeopatico, questo è un sintomo che gli investitori non sono convinti
che l’euro resisterà intero ai prossimi eventuali choc e la freddezza
della nuova Casa Bianca in proposito non fa che rafforzare i loro dubbi.
Specifico
dell’Italia poi è che qui, meno che quasi ovunque in Europa e nel
mondo, mancano le ragioni positive di un recupero dei tassi di mercato.
L’inflazione viaggia sotto zero (vedi articolo a fianco), la crescita
ben sotto l’uno per cento annuo. In termini reali, il costo attuale dei
titoli di Stato in scadenza fra dieci anni è più pesante di quanto fosse
a metà 2011 quando l’Italia fu risucchiata nella crisi del debito. Del
resto da inizio giugno i bond italiani hanno perso 70 punti-base di
terreno rispetto a quelli spagnoli e da agosto circa 200 punti rispetto a
quelli greci, oggi sempre molto indietro ma un po’ meno. Pesa
l’incertezza sul referendum costituzionale e la stabilità politica,
naturalmente. Dunque la tensione per ora continuerà, magari fino a
indurre alcuni italiani a votare con il portafoglio.