lunedì 14 novembre 2016

Corriere 14.11.16
La forza delle ragioni del sì che rischiano l’effetto boomerang
Il cambiamento non è un valore in sé, come dimostra il caso della vittoria di Trump
di Paolo Franchi

Ernesto Galli della Loggia ha descritto da par suo (Corriere, 5 novembre) le principali ragioni storico-politiche che tengono unito il campo del No alla riforma Renzi- Boschi. Ed è giunto alla conclusione che si tratti di ragioni (non sempre nobilmente) conservatrici. Può darsi — personalmente avrei qualche dubbio, ma mi rendo conto che i dubbi non vanno di moda — che le cose stiano così. Ma, se non altro per par condicio, varrebbe la pena di interrogarsi su quali siano, invece, le ragioni del Sì. Mantra sulla riduzione dei costi della politica e sulla semplificazione a parte, gli argomenti principali sono due. Il primo: in un Paese in cui si discute inutilmente di riforme costituzionali da più di trent’anni, o si cambia adesso, quando finalmente ce n’è la possibilità concreta, o non si cambierà mai più. Il secondo: chi è contrario a questa riforma in realtà è contrario a ogni cambiamento, perché vuole difendere uno status quo in cui si ritrova come un topo nel formaggio. Entrambi questi argomenti si portano appresso un corollario importante. Se lo scontro è tra cambiamento e conservazione, solo dei professori causidici o dei perdigiorno possono avere il tempo e la voglia di mettersi a fare le pulci alla riforma, per contestarne la direzione di marcia o, più semplicemente, questo o quell’aspetto: saranno pure in buona fede, i criticoni, ma oggettivamente fanno il gioco della vecchia politica che sogna, o si illude, di tornare in auge.
Si tratta di due argomenti, e un corollario, che, tanto più all’indomani di un evento rivoluzionario come la vittoria di Donald Trump, hanno una loro forza e una loro presa: in particolare su chi sa bene quanto profonde, trasversali e sovente opache, siano le resistenze delle (presunte) élite alla riforma delle istituzioni e della politica. Di qui a dire che siano anche convincenti, però, ne corre. Il cambiamento non è un valore in sé: altrimenti nel 2006 avremmo dovuto dire di sì alla riforma del centrodestra e, fossimo cittadini americani, martedì scorso avremmo dovuto votare in massa per Trump. Lo diventa se il presidente del Consiglio, che è pure il segretario del maggior partito, vi investe sopra tutto se stesso? È lecito dubitarne. Affermare che, se passasse questa riforma, l’Italia diventerebbe un Paese autoritario è onestamente troppo. Ma è legittimo e anzi doveroso chiedersi, in tempi in cui di crisi della democrazia si parla in tutto l’Occidente, se i mutamenti introdotti siano i più indicati per rafforzarla rinnovandola, e non restringendola.
La Costituzione varata il 27 dicembre 1947, all’indomani dell’estromissione dei comunisti e dei socialisti dal governo e alla vigilia del 18 aprile, non è «la più bella del mondo», come pretende una retorica fastidiosa. È un compromesso di alto profilo politico, culturale e sociale che avrà pure legittimato le più svariate nefandezze «consociative», ma in primo luogo ha consentito a un Paese sconfitto, devastato e segnato da contrapposizioni ideologiche, politiche e sociali inauditamente più dure di quelle attuali, di non deragliare dalla democrazia appena conquistata e di procedere alla ricostruzione prima, di diventare una potenza industriale poi. Forse le basi stesse di quel compromesso sono franate con il terremoto che ha sconvolto la morfologia sociale, politica e culturale dell’ Italia (e non solo). Ed è vero che della Costituzione si vuole riformare soltanto la seconda parte. Ma non è necessario essere dei nostalgici per faticare a credere che la Costituzione «nuova» possa garantire risultati anche solo lontanamente comparabili a quelli conseguiti ai tempi della Costituzione «vecchia». E per chiedersi se, a incrementare i dubbi, non concorra anche il fatto che il clima in cui dovrebbe nascere non sia di collaborazione, ma di scontro frontale.
Anche su questi interrogativi e su questi dubbi si sarebbe dovuto incentrare il confronto referendario, tenendo a bada i calcoli della politica politicante, e provandosi invece a chiarire non tanto quel che si risparmia (non moltissimo) superando il bicameralismo paritario, o riformando la riforma (voluta sciaguratamente dal centrosinistra) del Titolo Quinto, quanto piuttosto quale Italia si ha in mente, per le generazioni presenti e per quelle future. Ma più il 4 dicembre si avvicina, meno di tutto questo si ragiona. Così che l’argomento più forte del Sì (anche se il meno esibito, non fosse altro perché è un classico di tutti i conservatorismi di ieri, di oggi e di domani) comincia a diventare la paura del salto nel buio. Attenti, i mercati non fanno complimenti: se gli elettori bocciassero la riforma, e il governo che la ha fortissimamente voluta, verrebbe meno la stabilità politica di cui l’Italia ha comunque bisogno vitale in un periodo di così gravi turbolenze internazionali. Anche qui, c’è del vero. Ma è tutto da stabilire — basta guardare, anche qui, all’esito delle presidenziali americane e a quel che va capitando un po’ dappertutto in Europa — se un simile argomento sia ancora vincente, o non si sia tramutato, sotto ogni cielo, nel più pericoloso dei boomerang per chi, apertamente o implicitamente, lo fa proprio.