venerdì 11 novembre 2016

Corriere 11.11.16
Una moderna lampada di Aladino Il cammino senza fine della scienza
di Giulio Giorello

«La lampada di Aladino è la conoscenza; se un impero crolla, la luce della lampada si affievolisce per tornare a risplendere da un’altra parte, dove una nuova civiltà l’accoglie e la diffonde». Giuseppe Remuzzi, medico chirurgo che coordina le attività di ricerca dell’Istituto Mario Negri di Bergamo, nel suo libro Siamo geni (Sperling & Kupfer) sostiene che la scienza è sostanzialmente una, anche se si presenta in molteplici forme. E allo scopo riprende la vicenda del sapiente musulmano Ibn al Haytham (Alhazen, 965-1039). Questi, deluso dal pullulare di tante diverse religioni, cercò la verità prima nella matematica, poi nelle scienze della natura. Fu così che comprese «che la scienza non va avanti con le teorie e i preconcetti: servono i dati e poterli riprodurre. Poi bisogna saper descrivere i risultati con tutti i possibili dettagli perché altri siano in grado di ripetere gli esperimenti».
In particolare, nel suo Libro dell’ottica Al Haytham riuscì «a dimostrare che la visione è il risultato della luce che entra da un oggetto e riesce ad arrivare fino all’occhio». Duecento anni dopo Ruggero Bacone, che lavorava a Oxford, nel suo Opus maius poteva avvantaggiarsi di quel lavoro perché conosceva l’arabo. «L’Islam ha portato scienza e medicina in Europa», potendo sfruttare l’opera di traduzione, commento e reinterpretazione dei testi greci a Bagdad. E intanto che cosa faceva l’Europa? Soprattutto guerre e massacri. Commenta Remuzzi che «adesso tocca a noi contribuire al rilancio del mondo arabo. Con umiltà, e senza pretendere che succeda subito. Loro ci hanno impiegato sette secoli per riportare noi al passo con le conoscenze».
Per chi lavora in biologia e medicina la lampada di Aladino è oggi un intreccio assai potente di genetica, biochimica e biologia molecolare.
Nel lontano 1909 il danese W. L. Johannsen aveva proposto il termine gene per indicare «ciascuna delle particelle organiche determinanti uno o più caratteri ereditari di un individuo». Pressoché un secolo dopo, «il 26 giugno del 2000 Bill Clinton annuncia al mondo che la sequenza del genoma (l’insieme di tutti i geni che stanno nel Dna del nucleo delle cellule) umano era stata completata. Vicino a lui alla Casa Bianca quel giorno ci sono Francis Collins e John Craig Venter, i veri artefici di quel gigantesco sforzo». Collins è stato il primo a farsi sequenziare il Dna, e Remuzzi ci racconta di aver avuto la stessa idea. Dopo varie peripezie, l’impresa è andata in porto. Una buona notizia: «Ho una variante di un gene che mi consente di apprezzare l’amaro della birra più di quanto succede ad altri». E una cattiva: «Ho una variazione genetica che non consente di trarre vantaggio dagli aspetti favorevoli del vino rosso».
Battute a parte, le variazioni del Dna sembrano influire per circa un 20 per cento, e «non sono certamente tutto». Contano di più i geni o l’ambiente? Non solo per la predisposizione alle malattie — nonché nella passione per la buona birra —, ma anche nei più svariati contesti che ora la ricerca sperimentale esplora in modo sempre più sistematico. Dal piacere della musica alle scelte della politica: «Le nostre idee su welfare, immigrazione, matrimoni gay e persino se si debba spendere molto o poco in armamenti potrebbero dipendere dai geni (e anche da certi ormoni e dalle proteine che regolano la trasmissione dei segnali tra cellule nervose)». Di conseguenza non possiamo escludere che «un giorno qualcuno voglia sfruttare la neurobiologia per fini elettorali».
Conclude Remuzzi che col procedere della ricerca «ci si rende conto che non ci sono comportamenti che dipendono dai geni e comportamenti che dipendono dall’ambiente; piuttosto, ci sono predisposizioni genetiche che consentono in circostanze ambientali particolari di sviluppare certi modi di fare piuttosto che altri, ed è vero anche il contrario. Capita che l’ambiente possa influenzare attraverso modifiche che i medici chiamano epigenetiche l’espressione di certi geni, e ciò si traduce in comportamenti diversi a seconda delle circostanze».
Questa non è una sconfitta, ma una sfida. Sempre più ci accorgiamo che diffondere la luce della nostra «lampada di Aladino» è realizzare il tipo migliore di globalizzazione oggi possibile. È stato dimostrato che «investire un dollaro in salute ne porta tre in crescita economica». Non è un calcolo difficile: con un po’ di buona volontà potrebbero arrivarci anche i politici.