Corriere 11.11.16
Quei cardinali che tifano per Donald
di Massimo Franco
Il
Vaticano aveva scelto la strategia del «male minore». E alla fine
sembrava così rassegnato alla vittoria di Hillary Rodham Clinton da
pensare a lei come alla candidata meno sgradita: sebbene forse non ci
credesse fino in fondo. Donald Trump era considerato «non votabile» per
le rivelazioni sul suo maschilismo aggressivo, che si aggiungevano alle
minacce di deportare oltre il confine sud undici milioni di messicani,
di impedire l’entrata negli Usa agli islamici: cose ormai archiviate. E
invece, il presunto «male maggiore» Trump è emerso a furor di popolo
come nuovo inquilino della Casa Bianca, a conferma di un’America
arrabbiata e radicalizzata. E per la Santa Sede si tratta di una
sconfitta bruciante: culturale prima che politica. Tra l’altro, è il
segno che la Chiesa cattolica non aveva captato i sommovimenti più
profondi in atto nel maggiore Paese occidentale.
La cautela
ufficiale e le parole di augurio rivolte al neopresidente dal segretario
di Stato vaticano, cardinale Piero Parolin, sono state doverose e
ineccepibili. Ma si affiancano a una preoccupazione palpabile. Va detto
che sarebbe stata una sconfitta anche se avesse vinto la Clinton,
considerata un bastione del laicismo più ideologico e indigesto alle
gerarchie ecclesiastiche. Ma Trump è simbolicamente «l’uomo del muro»
col Messico. È il cantore della sbrigativa associazione
Islam-terrorismo. Ancora, ha vinto dopo essersi presentato come argine
«bianco» contro l’invasione demografica degli immigrati
latino-americani, di cui l’argentino papa Francesco è il sommo
protettore.
Così, a Roma è stato percepito e raffigurato come una
sorta di anti Papa, al di là dei suoi meriti e demeriti. Lui stesso,
d’altronde, scelse questo ruolo quando il 18 febbraio scorso accusò
Jorge Mario Bergoglio di essere «un agente del governo messicano per
l’immigrazione». Il Papa tornava da un viaggio al confine tra Messico e
Usa, dove aveva celebrato una messa proprio sul versante «povero» . E
reagì con una durezza insolita. «Chi pensa che bisogna costruire muri e
non ponti», scolpì, «non è cristiano».
«Nessuno sa cosa è rimasto
nell’anima di Trump dopo le parole del Santo Padre...», ammette un
influente cardinale italiano. Allora, il candidato repubblicano replicò a
brutto muso. Oggi, quella domanda rimbalza nella Roma papale, perché il
«cristiano non cristiano» Trump dal 20 gennaio sarà alla Casa Bianca.
La sua «cultura dei muri» e l’islamofobia minacciano di legittimare
tutti i populismi; e soprattutto di fare breccia nei circoli cattolici
più conservatori, che diffidano dei toni inclusivi di Bergoglio verso i
divorziati e gli omosessuali e della difesa dei migranti. Non è un caso
che il 22 settembre scorso Trump, protestante presbiteriano, abbia
diramato una lista di «trentatré cattolici conservatori» come
consiglieri elettorali: era un amo elettorale.
L’arcivescovo di
New York, Timothy Dolan, ha definito la campagna per le presidenziali
«disgustosa», pur invitando i cattolici a non astenersi. E l’episcopato
americano si è tenuto su una posizione di formale equidistanza che è
suonata come presa di distanza da entrambi i candidati; ma alla fine è
apparso disorientato. Nelle pieghe buie dei sondaggi è cresciuto
silenziosamente un «partito di Trump» affezionato al motto «Dio, patria,
famiglia e armi», caro all’America profonda; e appoggiato da pezzi di
organizzazioni cattoliche potenti come i Cavalieri di Colombo, in quanto
contrario all’aborto e alle unioni gay.
Ultimamente, anche in
Vaticano si parlava sottovoce dell’esistenza di frange della Curia
affascinate da Trump in opposizione alla «laicista Hillary», e come
nemico di un establishment logorato dal potere. Si tratta di settori
minoritari che però adesso si sentono rafforzati. Capofila è il
cardinale Raymond Leo Burke, critico coriaceo delle aperture di
Bergoglio: Burke ha già benedetto il neopresidente come «difensore dei
valori della Chiesa». Ma dietro di lui si indovinano invisibili
benedizioni di cardinali e vescovi di peso, schierati da sempre per la
«sacralità della vita»: «guerrieri culturali» contro il Partito
democratico di Barack Obama e dei Clinton.
La lotta all’aborto è
uno dei punti di incontro fra Trump e l’episcopato cattolico
nordamericano, che teme una Corte Suprema e una legislazione troppo
progressiste. In più, potrebbe emergere una sintonia con Francesco se
fosse confermata una politica più conciliante con la Russia di Putin,
che il Vaticano considera un alleato in Medio Oriente e nei rapporti col
mondo ortodosso. Al fondo, tuttavia, la vera incognita per Bergoglio
rimangono l’Occidente e la sua metamorfosi culturale. «Crediamo che a
votare per Trump siano stati pochi vescovi», spiega un profondo
conoscitore degli Usa dentro la Santa Sede. «Il problema è che lo hanno
votato molti cattolici».
Significa evocare un’opinione pubblica
percorsa da pulsioni che vanno in direzione opposta a quella indicata da
Francesco: in America e in Europa, dove la categoria del populismo va
declinata con meno sufficienza, perché coinvolge anche persone che
populiste non sono. C’è chi prevede che, se Bergoglio non ricalibra la
strategia, dal prossimo Conclave potrebbe spuntare un Papa
ultraconservatore. Il texano col cappello da cowboy e il crocifisso al
collo, felice per l’elezione di Trump, che mercoledì 8 novembre è stato
intervistato dai media statunitensi all’udienza in piazza San Pietro,
non era un’anomalia. Era l’emblema di un paradosso destinato a scuotere
la Chiesa di Francesco.