Corriere 11.11.16
Quel pericolo di restare divisi
di Aldo Cazzullo
A
trovarsi nei cortei anti Trump che percorrono New York come altre
città, due cose colpiscono: la giovanissima età dei manifestanti; e il
carattere spontaneo del loro impegno, indipendente dai partiti o da
qualsiasi forma di organizzazione che non siano i social. Titola Usa
Today: «La nazione divisa unita dallo choc». Trump e gran parte del suo
popolo non si attendevano di vincere;e gli altri non si attendevano che
vincesse. La sorpresa e la reazione sono state accostate a quelle
dell’Italia del 1994, quando la vittoria di un non-politico come
Berlusconi accese speranza ma anche sdegno, espresso nel corteo del 25
aprile a Milano. Ma negli Usa la sorpresa e la reazione sono ancora più
grandi. Coloro che protestano sotto casa Trump lo considerano un uomo
odioso e pericoloso. Una persona che conoscono da sempre e proprio per
questo non hanno mai preso sul serio.
Uno di cui ridevano in tv,
dove non era editore ma conduttore di uno show, e al cinema, dove
interpretava se stesso in Sex and the city e Mamma ho riperso l’aereo .
Uno che ha offeso le minoranze e i disabili con parole e gesti che in
Italia abbiamo già sentito e visto, ma che qui erano vietate nel
discorso pubblico. Un leader improvvisato e impreparato, che suscita
estraneità e repulsione.
Ma sarebbe un errore tacere che
l’elezione di Trump ha provocato un sussulto d’orgoglio in quella
«maggioranza silenziosa» cui si è appellato, oltre a segnare il rifiuto
della politica tradizionale, dell’establishment, e dei Clinton. Trump è
il campione di un’America che non ha mai accettato l’elezione di Obama:
non a caso fu il leader della campagna che sostenne la sua
ineleggibilità in quanto «non americano».
A quell’America seppe
parlare John McCain — l’uomo sconfitto nel 2008 dal primo presidente
nero — , con il discorso più nobile della storia recente: «Now Obama is
my president». Hillary, nel suo modo rigido ai limiti dell’alterigia, ha
ripetuto le stesse cose: «Dobbiamo accettare il verdetto, ora Donald
Trump è il nostro presidente». E Obama, nella sua compostezza empatica:
«Prima che democratici e repubblicani, siamo americani».
Ovviamente
una nazione non si riunifica a parole. Tanto meno con le parole di due
leader in uscita. Il partito democratico è da ricostruire: i Clinton che
l’hanno tenuto a lungo in ostaggio sono fuori gioco; e pure Obama, al
di là del fascino personale, esce dalle urne ulteriormente
ridimensionato. Trump, come Bush nel 2000, non ha avuto la maggioranza
del voto popolare, e questo non aiuta; però le regole sono queste.
L’America che non si riconosce nel nuovo presidente continuerà a
detestarlo, e a contestarlo. Ma non può mettere in discussione la
legittimità della sua elezione, né le ragioni di coloro — tra cui molti
elettori della «working class», la classe lavoratrice — che l’hanno resa
possibile.
L’America si è divisa non soltanto lungo le direttrici
tradizionali di destra e sinistra, che pure esistono: la vittoria di
Trump è anche una grande vittoria della destra, in una versione molto
diversa da quella liberista e interventista che abbiamo conosciuto.
L’America si è divisa in base al genere e all’etnia, per non dire al
sesso e alla razza. Riconciliarla è difficile; trovare un modo per farla
convivere è necessario.
Molto dipenderà da Trump e dalla sua
capacità di allargare il proprio campo — come seppe fare in un contesto
non paragonabile Reagan — , o almeno i propri interlocutori. Le prime
parole erano dovute, forse scontate; però in bocca a lui sono comunque
apparse importanti. Il nuovo presidente avrà poteri immensi: ha
sconfitto due partiti in un colpo solo, quello avversario e il suo; e
controlla appieno il Congresso. Ma la democrazia americana non ha
soltanto contrappesi e istituzioni secolari; ha la forza immensa di un
popolo irrequieto, ottimista, ribelle, eternamente giovane. Fare di
queste energie una forza creatrice anziché distruttiva è la prima sfida
per Trump e i prossimi leader dell’opposizione. Nella speranza siano
consapevoli che l’esito della partita non riguarda solo un Paese, ma il
mondo.