Corriere 11.11.16
La rabbia del popolo sconfitto si espande nelle strade d’America
Da New York a San Francisco cortei spontanei al grido: «Non è il mio Presidente»
Le università rassicurano i ragazzi
di Paolo Valentino
NEW
YORK Per decine di migliaia di giovani americani, da San Francisco a
New York, la vittoria di Donald Trump è semplicemente un risultato
inaccettabile. «Not my President», hanno cantato in cortei spontanei
inscenati nelle principali città degli Stati Uniti.
Persone come
Zina Powers, 23 anni, che ha passato tutta la giornata di ieri davanti
alla Trump Tower a New York, con un cartello: «Fear will not prevail»,
la paura non prevarrà.
Paura di cosa? «Sono nera, musulmana,
immigrata e sono diventata cittadina americana cinque anni fa.
Rappresento tutto quello che Donald Trump ha detto di odiare e non
volere in questo Paese. Ho paura per i miei amici afroamericani, gay,
immigrati che non hanno ancora i documenti. Ho paura che tutti i piccoli
progressi compiuti in questi otto anni vengano spazzati via».
Innescate
dal tam-tam dei social-media, le manifestazioni sono fiorite nella
serata di mercoledì e sono continuate ancora ieri mattina: a Dallas, New
Orleans, San Francisco, Portland, Chicago, Seattle, Washington, Saint
Paul in Minnesota, nei grandi college di California, Pennsylvania e
Massachusetts. Ci sono stati anche sporadici scontri e la polizia ha
effettuato alcuni fermi.
Qui a New York, il corteo più grosso,
almeno tremila persone in gran parte giovani, ha preso le mosse da Union
Square, sfilando sotto la pioggia per la Sesta Avenue in direzione del
grattacielo di Trump sulla Quinta. Un altro è partito da Columbus
Circle. Da tanti ristoranti lungo il percorso, molti camerieri in
divisa, quasi tutti neri o ispanici, sono usciti sui marciapiedi per
applaudire i manifestanti. «Sono qui per protestare contro il razzismo
che Trump esprime senza vergogna», ci ha detto Octavio Peres, 21 anni,
studente di Queens. «Ci sono migliaia di famiglie che rischiano di
essere separate se Trump andrà avanti con le deportazioni. Non è questa
l’America». Oltre a ripetere in cento comizi di voler costruire un muro
con il Messico, facendolo pagare ai messicani, il presidente eletto ha
promesso la deportazione di massa dei clandestini.
Davanti alla
Trump Tower, la polizia ha schierato come scudo protettivo una fila di
camion per la raccolta delle immondizie, mentre buona parte delle strade
intorno sono state chiuse al traffico e agenti in assetto antisommossa
hanno presidiato l’edificio. Una bandiera americana è stata bruciata non
lontano dalla residenza del magnate.
Ben Chase, 25 anni, un
ragazzo nero che lavora in una caffetteria di Brooklyn, ha preso la
giornata libera: «Quest’uomo non può fare il presidente: è razzista,
misogino, violentatore di donne, bigotto e non paga neppure chi lavora
per lui. È ridicolo che possa sedere nello Studio Ovale». Eppure, ho
obiettato, milioni di americani lo hanno votato: «Bianchi soprattutto. E
questo dimostra che non si preoccupano affatto dei loro connazionali di
diverso colore. Loro non sanno cosa sia dover fronteggiare l’odio che
Trump sta seminando. Semplicemente lo ignorano».
Leanne, 18 anni,
studia antropologia alla New York University. Viene dalla Giamaica, ha
preso la nazionalità americana tre anni fa: «Come può essere presidente
uno che è un molestatore seriale di donne?». Trump è stato accusato da
almeno una dozzina di donne di averle baciate o palpeggiate contro il
loro volere, accuse che il presidente-eletto ha sempre negato.
«Sono
molto nervosa per il futuro, l’elezione di Trump crea una realtà nuova
dove veramente non sappiamo cosa aspettarci», mi ha detto Blanca
Fernandez, 22 anni, studentessa di economia alla Hofstra University a
Long Island, figlia di immigrati messicani, raccontando di
«conversazioni molto preoccupate» con i suoi colleghi su cosa fare nei
prossimi mesi: «Credo che dovremo essere molto attenti e pronti a
scendere in piazza a ogni segnale di inasprimento della politica verso
noi ispanici».
Un senso di incertezza sembra prevalere nelle
minoranze. «È come una bomba a tempo, prima o poi esploderà» secondo
Alejandro Cortes, trentenne manager di un negozio d’abbigliamento a
Manhattan, che spera la protesta continui per mandare un segnale preciso
alla futura Amministrazione: «Non lasceremo che questo Paese sia
dominato dalla paura e dall’odio».
Su Facebook, una pagina dal
titolo «Not My President» ha invitato a manifestare a Washington il 20
gennaio, giorno dell’inaugurazione del nuovo comandante in capo. «Ci
rifiutiamo di riconoscere Donald Trump come presidente degli Stati Uniti
e di prendere ordini da un governo che mette i bigotti al potere».
La
protesta e le preoccupazioni che esprime sono state prese molto
seriamente nelle università. «Siate gentili e occupatevi gli uni degli
altri — hanno scritto i presidi delle facoltà del campus di Berkeley, in
California, in una mail a tutti gli studenti —, sappiamo che i
risultati di ieri destano preoccupazione e paura tra molti nella nostra
comunità, in particolare tra gli immigrati senza documenti, gli
afroamericani, i musulmani, gli ispanici, gli Lgbt, le persone disabili,
le vittime di assalti sessuali, le donne a molti altri». Analoghe
iniziative sono state prese nelle Università del Vermont, del Maryland,
di Boston e di Chicago.