Avvenire 14.11.16
500 anni dopo Lutero
Parmentier: «La riconciliazione parla con voce di donna»
Parla la teologa luterana Elisabeth Parmentier:
«A favorire l’ecumenismo è anche l’atteggiamento sempre più materno assunto dalla Chiesa nella società»
di Alessandro Zaccuri
Qualche
anno fa, invitata a parlare sul futuro dell’Unione Europea, la teologa
luterana Elisabeth Parmentier aveva proposto una similitudine che molti
ancora ricordano. È come se una donna fosse incinta di due gemelle,
spiegava: una si chiama Paura, l’altra Speranza. Tutto sta a vedere chi
avrà la meglio. Ora come ora la pastora Parmentier sembra un po’ meno
ottimista: «La mia impressione – dice – è che in Europa e nel mondo sia
la paura a prevalere. Ma questa può essere un’opportunità per i
cristiani. Anzi, è un invito a proseguire con convinzione ancora
maggiore nel cammino del dialogo ecumenico».
Docente di Teologia
pratica alla Faculté de théologie di Ginevra, Elisabeth Parmentier è
nota anche al lettore italiano grazie ai saggi editi nel nostro Paese da
Edb (La Scrittura viva, 2007) e Qiqajon (Donne in concorrenza?,
sull’episodio evangelico di Marta e Maria, 2014). Nei giorni scorsi ha
partecipato al convegno su "Giubileo della Misericordia, giubileo della
Riforma:una prossimità feconda?" organizzato a Padova dalla Facoltà
teologica del Triveneto. Un’occasione di studio resa straordinariamente
attuale dal viaggio di papa Francesco in Svezia, durante il quale è
stata sottoscritta a Lund la Dichiarazione congiunta tra la Chiesa
cattolica e Chiese luterane: «Abbiamo imparato – si legge nello storico
documento – che ciò che ci unisce è più importante di ciò che ci
divide». Detto altrimenti, quello che un tempo divideva oggi può unire.
La lettura della Parola di Dio, per esempio.
«È vero – ammette la
professoressa Parmentier – per un lungo periodo l’interpretazione della
Scrittura ha rappresentato un elemento di scontro fra le Chiese, ma in
questo momento è diventata finalmente luogo di incontro e di confronto.
Questo non significa che l’avventura dell’interpretazione possa
considerarsi conclusa. Al contrario, la Scrittura, in quanto realtà
viva, resta sempre in discussione. Distinzioni e sottolineature
differenti si riscontrano ancora oggi e, per paradossale che possa
apparire, risultano più accentuate all’interno del mondo protestante».
A
che cosa si riferisce?
«Al letteralismo che contraddistingue alcune
confessioni evangelicali e che si risolve spesso in un atteggiamento di
tipo esclusivamente morale. È come se, per ribadire l’autorità della
Scrittura, si volesse rinunciare al patrimonio della critica storica e
filologica. Bisogna evitare le generalizzazioni, è chiaro. Ma non
possiamo dimenticare come il dialogo attuale affondi le sue radici nella
tradizione dell’Umanesimo, dal quale ci viene la capacità di leggere in
chiave critica il testo biblico».
Qualcosa che divide cattolici e
protestanti però c’è ancora. Di che cosa si tratta?
«A mio avviso il
problema fondamentale è costituito dalla visione della Chiesa. Da parte
delle denominazioni protestanti si potrebbe anche arrivare al
riconoscimento del Papa come primus inter pares, ma questo passo
dovrebbe essere preceduto da una revisione della struttura ecclesiale da
parte cattolica. Non è solo questione di organizzazione gerarchica, ma
di articolazione e visione della Chiesa. Ed è precisamente da questo che
discende la possibilità di instaurare un dialogo ecumenico capace di
arrivare a un accordo più vasto e puntuale».
Il discrimine,
dunque, non sta più nella dottrina sulla giustificazione?
«Su questo la
controversia si è chiusa definitivamente nel 1999, con la Dichiarazione
congiunta sottoscritta da cattolici e luterani. Da allora siamo
consapevoli che tra i cristiani non esiste più alcun disaccordo in
merito alla natura e alla portata della salvezza. Lo stesso tema della
misericordia, che tanta rilevanza ha avuto quest’anno nella Chiesa
cattolica per via del Giubileo, appartiene fin dalle origini alla
spiritualità protestante. Sul versante sacramentale, poi, la consonanza è
ormai completa non solo per quanto riguarda il Battesimo, ma anche per
l’Eucaristia, nella quale anche i luterani, pur non adottando la
definizione cattolica di transustanziazione, riconoscono comunque la
vera presenza di Cristo».
Eppure l’ordinazione ministeriale rimane
un punto critico.
«Per il motivo che sottolineavo in precedenza, ossia
la diversa visione di Chiesa che ci caratterizza. Il pastore luterano
non ha alcuna investitura sacramentale e questo non può non porre un
problema di reciprocità nei confronti del cattolicesimo».
Anche la
valorizzazione del carisma femminile va considerata in questa
prospettiva?
«La mia convinzione è che già adesso, all’interno della
Chiesa cattolica, molte donne svolgano un servizio pastorale al di fuori
del ministero ordinato. Sarà proprio questa esperienza concreta a far
progredire la coscienza dell’importanza della donna in ambito
ecclesiale, probabilmente attraverso la strada del diaconato. Più
complesso è semmai il discorso del celibato sacerdotale, che per i
cattolici costituisce una componente molto forte e direi quasi
irrinunciabile della propria identità simbolica».
Quali sono le
novità introdotte da papa Francesco nel dialogo ecumenico?
«Bergoglio ha
il carisma di una grande intelligenza teologica. La sua è una visione
radicalmente cristologica della realtà, che lo porta a trasformare in
messaggio di riconciliazione la sua stessa persona e le sue stesse
azioni. In questo mi pare evidente il portato degli Esercizi spirituali
ignaziani e, nella fattispecie, dalla pratica del discernimento, che
porta a distinguere continuamente fra ciò che è prudente e ciò che è
urgente, nell’ecumenismo così come nella Chiesa cattolica».
In che
modo il contesto della secolarizzazione influisce sulla riconciliazione
fra i cristiani?
«Negli ultimi decenni i cambiamenti sociali hanno
fatto sì che la Chiesa assumesse una funzione diversa. Al riferimento
normativo del passato è subentrato un atteggiamento che definirei
terapeutico, diaconale, materno. Più femminile, se così vogliamo
considerarlo. Questo, lo ripeto, dipende da una domanda sempre più
diffusa, che sicuramente ha nella solitudine prodotta dalla
secolarizzazione una della sue motivazioni più riconoscibili. A ben
pensarci, però, anche gli obiettivi primari indicati dalla Dichiarazione
congiunta di Lund, come la cura dell’ambiente e l’accoglienza dei
migranti, chiamano in causa questa dimensione terapeutica e materna,
squisitamente femminile, della Chiesa».
Ma per lei, personalmente, che cosa significa essere luterana?
«Per
me la libertà del cristiano sta al cuore della spiritualità di Lutero. È
un dono straordinario e, in quanto tale, non va frainteso. Non si
traduce nella licenza di fare tutto quello che si vuole, ma implica la
consapevolezza di essere stati liberati, una volta per tutte, dalla
preoccupazione di noi stessi. Questo induce a vivere nella gratitudine
e, nello stesso tempo, permette di rivolgersi agli altri senza più
timore. Nei suoi scritti Lutero insiste molto nella presenza del
diavolo, del peccato e della morte nelle nostre esistenze. Il suo è il
linguaggio dell’epoca, ma il messaggio rimane inalterato nel tempo. La
separazione tra Dio e l’uomo oggi assume l’aspetto di una solitudine
assoluta, che induce a un’assoluta disperazione. Essere luterana, per
me, significa sapere di non essere mai sola, nella certezza che perfino
la morte, l’ultimo nemico, è già stata sconfitta da Cristo»tispecie,
Lutero non ha mai rinunciato al procedimento binario della reciproca
esclusione. Per lui l’Eucaristia, per esempio, non può essere nello
stesso tempo sacrificio e rendimento di grazie, perché una definizione
viene a contraddire l’altra e questo impedisce di raggiungere la sintesi
del sacrificium laudis. Questo, peraltro, vale anche per la posizione
assunta da Lutero sull’ordinazione. Per strano che possa apparire, fu
proprio l’eredità della Scolastica a rendere impossibile la
riconciliazione nei primi anni della Riforma. Adesso spetta a noi
trovare un linguaggio e un pensiero veramente innovativi».