Repubblica 9.10.16
Perché la riforma della Costituzione nasce vecchia
Parlamento più debole, enti locali allo stremo: che vinca il Sì o il No nulla di questo quadro è destinato a cambiare
di Massimo Cacciari
FINGIAMO
di credere che lo scontro referendario riguardi il merito della riforma
costituzionale. Temo che il dibattito serio sul tema si sia concluso in
Italia col fallimento della Bicamerale e il successivo ventennio di
scatenato centralismo burocratico- ministeriale perfettamente condiviso
da centrodestra e centrosinistra. Ciò che stupisce nei discorsi dei
duellanti è l’incapacità o la non volontà di esprimere con la dovuta
chiarezza le proprie ragioni, il senso ultimo, non occasionale, non
episodico, che le dovrebbe sostenere.
È evidente che nelle
posizioni più consapevoli del “fronte del No”(e cioè né in quelle che
“mandiamo-a-casa-renzi- e-basta”, né in quelle portatrici di una
insostenibile “ostinazione conservatrice” in materia costituzionale) si
agitano preoccupazioni storiche, politiche e culturali che travalicano
da ogni parte il merito dell’attuale riformetta. Preoccupazioni
giustificatissime sullo stato di salute della nostra democrazia. Renzi e
i suoi disegni vengono avversati in quanto sintomo e fattore insieme
del malanno. Ma nel far questo si cade in una loro incredibile
sopravvalutazione! Abolire doppia o tripla lettura delle leggi, qualche
senatore e, chissà quando in via definitiva, le Province, per quanto nel
modo più incasinato e dilettantesco, non sembra in sé spregevole, e
d’altra parte ha ben poco o nulla a che fare con i problemi di fondo che
il No dei “consapevoli” solleva. È un No nei confronti di una
sub-cultura politica e di un cattivo senso comune che va diffondendosi a
vista d’occhio. I tempi della politica sono inconciliabili con quelli
dell’economia, della finanza e del libero scambio, assunti a exemplar.
La
complessità è un male e va ridotta a ogni costo. Democrazia è sinonimo
di procedure snelle e efficaci per giungere alla decisione;
partecipazione e comunicazione sono problemi del web. I Parlamenti tanto
più funzionano quanto più si trasformano in anti-camere del Principe. I
partiti politici sono creature preistoriche; contano i leader, la loro
immagine, legittimata da sondaggi e Twitter. I sindacati organizzino
patronati e difendano, se son capaci, la merce-lavoro. Nel No dei
“consapevoli” suona il retro-pensiero che Renzi rappresenti tutto
questo. Certo, non rappresenta l’opposto. E tantomeno lo rappresenta la
riforma di cui si discute. Ma presentarla come uno snodo decisivo su
questo fronte è dar credito ai loro autori di una potenza e di una
visione strategica che per fortuna son lungi dal possedere.
Questa
cosiddetta riforma si colloca certamente nella prospettiva di chi
ignora la gravità della crisi che la democrazia attraversa. Essa non si
esprime soltanto nella debolezza dell’Esecutivo, in una “costituzione
senza scettro”( come il sottoscritto con altri predicava quarant’anni
fa), ma ancor più in quella del Parlamento. La spasmodica ricerca di
trasformarlo per quanto possibile in un’assemblea di nominati e cooptati
da parte di chi sarà chiamato a formare il governo significa liquidarne
la stessa ragione d’essere. Il Parlamento nasce e si giustifica in
quanto essenzialmente organo di controllo e espressione della sovranità
del popolo. Il rafforzamento dell’Esecutivo, in una riforma degna di
questo nome, avrebbe dovuto combinarsi con un rafforzamento del
Parlamento, della sua rappresentatività, del suo ruolo. La stessa legge
elettorale in discussione a tutto mirerà, siamone certi, fuorché a
questo fine.
La subordinazione del Legislativo al Governo è
prodotto della stessa cultura che vede partiti, sindacati, corpi
intermedi come fastidiose sopravvivenze o una sorta di micro-stati nello
Stato. Per le attuali leadership ci sono soltanto il popolo e loro a
rappresentarlo. Ma questo non è il popolo! È una moltitudine di
individui, ciascuno coi propri più o meno legittimi appetiti, destinati
perciò a “delegare” in bianco a chi comanda. Il popolo è popolo quando
si presenta come entità politica, giuridica, culturale, e cioè quando dà
vita in sé e da sé a organismi che danno forma e voce alle forze, agli
interessi, alle culture che lo costituiscono. Altrimenti è una pura
astrazione, oggetto di pure retoriche, in realtà semplicemente un
insieme di sudditi. Dunque, una vera riforma avrebbe dovuto rafforzare,
anche nella Costituzione, il principio di sussidiarietà, la promozione
di ogni forma di auto-organizzazione, regolare la vita democratica di
partiti e sindacati.
Da questo punto di vista, la riforma di cui
si discute nasce stra-vecchia, anzi, come qualcuno ha detto, è una
riforma postuma. Parlamento ancora più debole, enti locali allo stremo,
corpi intermedi ridotti a funzioni assistenziali: che vinca il Sì o il
No nulla di questo quadro è destinato a cambiare. Ed è altrettanto
evidente che al di là della quasi-eliminazione del Senato l’attuale
(tutto) ceto politico non sarebbe in grado di muovere un passo.
Teniamoci il topolino — e coloro che si oppongono non tanto a Renzi, per
carità, quanto alla deriva culturale che ho sopra descritto, comincino a
lavorare non per resistere-resistere-resistere, ma per innovare-
innovare-innovare la nostra cara, e tutt’altro che vecchia, democrazia.