Repubblica 9.10.16
Quel secolo senza radici di democrazia
di Andrea Bonanni
BRUXELLES.
Qualsiasi problema che in Europa non riesca a trovare una ragionevole
composizione politica è, innanzitutto, un problema culturale e
identitario. Lo abbiamo visto con l’estenuante confronto Nord/Sud
sull’austerità e la spesa pubblica. Lo abbiamo riscontrato nel dialogo
tra sordi che ha portato alla Brexit. Lo ritroviamo sulla questione
irrisolta dei rifugiati.
E in questa Unione dei fin troppi
problemi, è ormai chiaro che i Paesi dell’Est europeo sono diventati un
problema in sè. Non solo e non tanto per il loro rifiuto ideologico nel
dimostrare un minimo di solidarietà sulla questione dei richiedenti
asilo. Ma soprattutto perché sono portatori sempre più radicali di un
neonazionalismo che risulta inconciliabile con lo spirito comunitario,
come dimostra l’intervista a Jaroslaw Kaczynski che pubblichiamo in
queste pagine.
Anche questo, ovviamente, è un problema prima di
tutto culturale e identitario. Di cui possiamo forse cercare di
rintracciare le radici storiche. La “Vecchia Europa”, l’Europa dei padri
fondatori, quella che Renzi ha voluto celebrare con Merkel e Hollande a
Ventotene, nasceva, oltre che da un lungimirante progetto economico,
dalla constatazione del fallimento morale degli stati-nazione. Le due
guerre mondiali che hanno distrutto il Continente in trent’anni sono
state il frutto avvelenato dei nazionalismi e degli stati-nazione che li
avevano nutriti e alimentati. L’Europa che noi amiano e conosciamo si è
formata attraverso un processo di riconciliazione, che a sua volta si è
fondato sulla consapevolezza che le logiche nazionali sono distruttive
e, alla lunga, autodistruttive.
I Paesi dell’Est europeo, e in
particolare i quattro del Gruppo di Visegrad, non hanno vissuto la
nostra stessa esperienza. I loro stati nazionali e democratici si sono
formati alla fine della Prima Guerra mondiale come una speranza di
redenzione e sono stati travolti solo vent’anni dopo dalla Seconda
Guerra mondiale, seguita dall’umiliante occupazione dei regimi
sovietici. Per molti di questi nostri “fratelli separati”, l’idea di
nazione sovrana corrisponde ancora all’idea di democrazia nazionale, di
riscatto morale, di sovranità riconquistata. La loro storia, tragica e
sanguinosa quanto e più della nostra, non li ha dotati degli anticorpi
culturali per diffidare del nazionalismo e delle sue facili lusinghe.
È
comprensibile, dunque, che oggi si ribellino al potere di un’Europa che
non hanno capito, e dove sono entrati un po’ per interesse economico e
un po’ per marcare in modo definitivo la loro distanza dalla Russia.
Come si deduce dalle parole di Kaczynski, noi li abbiamo accolti per
abbattere un muro. Loro sono venuti solo per erigerne un altro, più ad
Est.
Ma il nazionalismo è in assoluto incompatibile con il
progetto europeo. Come dimostra il fatto che i movimenti
nazional-populisti anche nella Vecchia Europa sono, prima di tutto,
movimenti anti-europei. Ora che la Brexit ha posto bruscamente e
amaramente fine ad un altro equivoco culturale durato quarant’anni,
quanti anni dovremo aspettare prima di risolvere l’equivoco che divide
la “Vecchia Europa” da una pretesa “Nuova Europa” che non vuole essere
davvero europea?