Corriere 9.10.16
la bellezza perduta nelle città
di Ernesto Galli della Loggia
A
chi appartengono Firenze, Roma, Venezia, i grandi luoghi della bellezza
italiana? A chi anche quelli meno noti, i tanti borghi sparsi nella
Penisola, per esempio quelle autentiche gemme dell’Umbria che sono
Bevagna e Montefalco? Chi ha titolo a decidere del loro destino? si
chiede inevitabilmente chi oggi visita questi luoghi.
Se lo chiede
davanti allo spettacolo dello scempio che se ne sta facendo. Lasciamo
perdere la calca soffocante dei turisti italiani e stranieri che si
aggirano di continuo in un paesaggio urbano in genere concepito per la
ventesima parte di quelli che oggi vi aggirano.
Lasciamo perdere
dunque le gimkane tra le gambe della gente sdraiata come se nulla fosse
in mezzo alla strada, o il percorso continuo a zig zag cui si è
costretti per evitare di essere travolti da gruppi di turisti procedenti
come rulli compressori con gli occhi fissi sul segnacolo brandito dalla
loro guida, e lasciamo perdere pure gli assalti ai mezzi pubblici, o le
pipì in mezzo alla strada e i tuffi nei canali delle cronache di questa
estate.
Ma quello che non si può lasciar perdere è lo stupro dei
luoghi, lo stravolgimento dell’ambiente fino alla sua virtuale
cancellazione.
Tutto quello che il passato aveva fin qui prodotto —
botteghe, commerci, edicole, angoli appartati, dignitosi negozi — tutto
o quasi sta per scomparire o è già scomparso.
A l suo posto
minimarket, rivendite di cianfrusaglie orribili spacciate per souvenirs,
losche hostarie con cibi congelati, caldarrostai bengalesi in pieno
luglio, miriadi di bugigattoli per pizze a taglio, pub improbabili,
sedie e tavolini straripanti fino alla metà della strada e presidiati da
petulanti «buttadentro», gelaterie in ogni anfratto. Per non dire dello
stuolo infinito di rivenditori extracomunitari di merci false, delle
mille insegne in un inglese «de noantri», della marea di Bed &
Breakfast spuntati dovunque come funghi.
Non chiudiamo gli occhi
di fronte alla realtà: i centri storici (e non solo loro) delle più
belle città italiane e molte delle località cosiddette minori sono
ridotti a questa informe poltiglia turistico-commerciale. Un cinico
sfruttamento affaristico si sta mangiando ogni giorno un pezzo del
nostro passato, del nostro Paese, un pezzo di quella «grande bellezza»
di cui pure ama riempirsi la bocca la sempiterna retorica della
chiacchiera politica.
Di tutto quanto ho detto conosciamo i
responsabili. Sono per la massima parte i poteri locali, le
amministrazioni comunali, gli assessori e i sindaci. Questi ultimi
soprattutto, per la loro funzione di guide e di responsabili politici
ultimi. Sono i Comuni infatti che rilasciano le licenze commerciali, che
autorizzano il cambiamento della destinazione d’uso dei locali, che
emanano le regole circa l’arredo urbano. Sono essi infine che dispongono
della polizia locale la quale — anche su ciò è ora di dire una parola
di verità — specie nei grandi centri da Roma in giù rappresenta uno dei
tanti aspetti scandalosi di questo Paese, essendo quel ricettacolo che
essa abitualmente è di clientele politiche e di assenteismo, esempio di
una conclamata approssimazione professionale quando non di peggio. È la
polizia urbana agli ordini dei sindaci che non controlla nulla, non è
mai presente, lascia correre, fa finta di non vedere.
Il fatto è
che i sindaci hanno un interesse preciso a fare andare le cose nel modo
in cui vanno. Si chiama democrazia. Non la democrazia come ideale,
beninteso, al quale siamo tutti devoti, ma la democrazia come realtà.
Cioè come suffragio elettorale, come necessità di ottenere e mantenere
il consenso degli elettori. Al pari di ogni altro politico l’interesse
primo di ogni sindaco è quello di essere rieletto (è vero che non
possono esserlo più di una volta nelle località al di sopra dei 15 mila
abitanti, ma un sindaco che anche dopo due mandati consegna la propria
amministrazione agli avversari non ha certo delle buone credenziali per
vedersi candidato ad altri incarichi); egli dunque non deve
assolutamente dispiacere ai propri elettori. Soprattutto là dove il
turismo è una risorsa essenziale ciò significa non dispiacere alle
categorie che vivono più o meno direttamente del turismo: ai
commercianti, agli albergatori, ai ristoratori, ai tassisti, ma anche
alla connessa proprietà edilizia e a tutta la pletora di «abusivi» che
ruota intorno all’organizzazione dell’ospitalità (tipo i finti
«centurioni» o gli autobus-chiosco diffusi a Roma). Tutti segmenti
sociali, quelli appena detti, abituati a organizzare in modo ferreo il
proprio voto amministrativo e ad allocarlo su chi promette di non
impedire loro di continuare a sfruttare strade, piazze e monumenti per
il proprio esclusivo interesse. Nove volte su dieci determinandone così
la vittoria .
Ma se dunque la «grande bellezza» italiana è la
vittima predestinata del meccanismo del consenso elettorale a livello
locale, è davvero così antidemocratico pensare di neutralizzare un tale
meccanismo? Pensare ad esempio di dare al ministero dei Beni culturali,
attraverso i suoi organi periferici quali le Soprintendenze, la facoltà
di porre il veto su un certo numero di atti amministrativi concernenti
le materie di cui si è discorso sopra? È davvero antidemocratico,
ricorrendo certe condizioni (tasso di assenteismo, numero di
procedimenti disciplinari e giudiziari a carico dei loro componenti)
pensare ad esempio di mettere le polizie locali agli ordini di un
ufficiale dei Carabinieri temporaneamente distaccato in aspettativa
dall’Arma?
Il fatto è che in società dal fragile spirito civico
come la nostra, abitate da interessi privati furiosamente
indisciplinati, la pedissequa applicazione del suffragio elettorale può
spesso risolversi in un danno reale e grave inferto proprio ai valori
sostanziali, al bene comune, per la cui difesa la democrazia è stata
pensata. Classi politiche degne di questo nome, le quali non si
lasciassero intimidire dalle parole ma guardassero ai fatti, dovrebbero
convincersene e agire di conseguenza.