sabato 8 ottobre 2016

Repubblica 8.10.16
Perché con Trump i media non possono essere imparziali
Perfino il Nyt ha rinunciato alle sue cautele per smascherare le bugie del tycoon
di Timothy Garton Ash

TRUMP indossa l’inganno come una seconda pelle». A parlare è Nathan, un piccolo imprenditore che ho incontrato giorni fa a Chicago. Non avrei saputo trovare un’espressione migliore. Da uno studio recente è emerso che nei discorsi di Donald Trump ricorrono in media una menzogna o un’inesattezza ogni cinque minuti. Qui negli Usa infuria il dibattito sulla copertura mediatica da riservare a questo demagogo narcisista, bugiardo, ignorante e pericoloso. Ma la situazione in cui versano i media stessi è parte del problema.
Secondo l’opinione prevalente in campo giornalistico i conduttori televisivi e i cronisti dovrebbero smascherarlo quando infila una balla dopo l’altra, come ha fatto Leslie Holt della Nbc nel suo ruolo di moderatore del dibattito con Clinton. Fingersi imparziali di fronte a due candidati tanto diversi sotto il profilo qualitativo e della serietà significherebbe cader preda di quel pregiudizio che l’opinionista Brooke Gladstone ha definito Fairness Bias, ovvero l’ossessione della correttezza. «Grazie Professor Smith, per averci esposto la sua tesi secondo cui la terra è rotonda, ora concediamo altrettanto spazio e rispetto a quella del Signor Jones, secondo cui è piatta». Se vi serve un esempio recente di questa ossessione, basta che pensiate a come la nostra timida e intimidita Bbc ha coperto la campagna referendaria per Brexit.
È interessante notare che persino il New York Times — non per nulla soprannominato “la dama grigia” — ha rinunciato alla sua classica rigida imparzialità e alle cautele da zitella. Non passa giorno che non escano articoli che fanno la pelle a Trump. C’è da dire che la cronaca, pur offrendo ottimi pezzi di giornalismo investigativo sul passato di Trump come imprenditore, ciarlatano e fanatico, oggi scivola in aggettivi, ed espressioni peggiorative che un tempo avrebbero suscitato la disapprovazione della dama grigia dietro la sua tazza di tè.
Capisco perfettamente perché il New York Times ha abbandonato la prassi normale. In un editoriale ha definito Trump «il peggior candidato mai proposto da un grande partito in tutta la storia americana moderna ». Trump è una minaccia per la pace civile in patria e per la reputazione del paese all’estero. Un amico italiano paragona la reazione del quotidiano statunitense a quella de la Repubblica di fronte alla resistibile ascesa di Silvio Berlusconi.
Purtroppo questa presa di posizione potrebbe contribuire a rafforzare una tendenza strutturale in sé corrosiva per la democrazia americana. La tesi più americana a favore della libertà di espressione e di quella che, in termini anacronistici, definiamo ancora libertà di “stampa” — esplicitamente formulata nel Primo Emendamento — è che si tratta di libertà necessarie all’autogoverno democratico. Solo se i cittadini possono ascoltare tutte le opinioni e le prove attinenti, come facevano nell’antichità gli ateniesi radunati ai piedi dell’Acropoli, saranno in grado di fare una scelta informata e di autogovernarsi quindi nel vero senso del termine: prima la voce, poi il voto. Quindi bisogna ascoltare le tesi e le prove di entrambe le parti.
Ma sotto questo aspetto il primo duello televisivo tra i due candidati è stato l’eccezione che conferma la regola: una momentanea esperienza condivisa nella pubblica piazza. Per il resto del tempo gli elettori americani sono appartati nelle rispettive stanze dell’eco ad ascoltare opinioni che rafforzano le proprie. L’effetto stanza dell’eco è stato osservato in primo luogo su Internet, con gli utenti chiusi dentro un “bozzolo di informazione”, ma ormai è una caratteristica di tutto il panorama mediatico, non solo online e non solo statunitense. Siamo di fronte al contempo a una profusione da libero mercato di fonti di notizie e opinioni e ad una analoga frammentazione. Chi vota per Trump si informa guardando
Fox News, ascoltando i talk show radiofonici di destra, visitando siti come Breitbart e i profili degli amici di Facebook; gli elettori di Hillary Clinton usano canali televisivi e radio come Msnbc, Npr, Pbs, siti web come Slate o HuffPost, seguono persone di opinioni analoghe alle loro sui social media — e leggono l’organo di stampa ormai esplicitamente anti-Trump, il New York Times.
Da quando Internet ha distrutto il tradizionale modello economico dei giornali permettendo una fantastica profusione di fonti, tutte le testate (incluso il Guardian) competono selvaggiamente per accaparrarsi globi oculari e click del mouse in un frenetico affollatissimo campo, ventiquattr’ore su ventiquattro — l’equivalente virtuale della sala contrattazioni delle borse o di un mercato all’aperto in India. Basta urlare, urlare, urlare. Se c’è sangue fa notizia, vince chi strilla più forte. Il giornalismo sottile, equilibrato, fondato su dati comprovati, come quello che questo vostro umile servitore cerca di proporvi, fa fatica a farsi sentire in mezzo al baccano. Le possibilità tecnologiche, gli imperativi commerciali e forse persino i cambiamenti culturali si alleano per trasformare la democrazia deliberativa in info-intrattenimento.
La Reality Tv batte la realtà — e battere è la parola d’ordine. Come Berlusconi, Trump, imprenditore dello spettacolo e a suo tempo protagonista di reality televisivi, è sia prodotto che artefice di questo “mondo nuovo”. È il Jerry Springer della democrazia americana. Accanto alla cosiddetta destra alternativa (alt-right) abbiamo oggi la realtà alternativa.
Nella realtà alternativa i fatti, le prove e le opinioni degli esperti generano miti, folli esagerazioni, bugie e potenti narrazioni semplicistiche (lo slogan di Trump “rifare grande l’America”, quello dei fautori di Brexit “riprendere il controllo”). Gli storici della propaganda sanno che le menzogne ripetute allo sfinimento prevalgono sulla verità. Un effetto analogo hanno quelle stanze dell’eco multipiattaforma a ciclo continuo che sono i media di parte e i social media che rafforzano i pregiudizi.
Mi sono trovato a vivere l’esilarante esperienza di difendere un mio libro dal titolo Facts Are Subversive ( I fatti sono sovversivi) nel programma satirico Colbert Report.
Come sarebbe, gridava il conduttore, il comico Stephen Colbert, non voglio mica che i fatti mi sovvertano e mi facciano star male, voglio roba che mi fa star bene io! È rimasto famoso il suo neologismo truthiness, una verità di comodo, alternativa alla realtà. Beh, meno male che Colbert è passato a un altro programma, perché nel frattempo la realtà ha superato la sua satira. Trump è il gran maestro della verità di comodo. Anche se ormai ha lasciato perdere la teoria complottista secondo cui Obama sarebbe nato in Kenya, una delle dichiarazioni rilasciate dopo la pubblicazione del certificato di nascita del presidente è esempio perfetto delle sue verità di comodo. Trump spesso si nasconde dietro la frase «In molti pensano» ma in questo commento, espresso in un’intervista, fa un passo ulteriore, dal pensiero alla sensazione. Dice: «In molti hanno l’impressione che il certificato non sia valido». E sapete una cosa, io ho l’impressione che la terra sia piatta.
In effetti nel primo dibattito televisivo entrambi i candidati hanno fatto allusione a questa separazione in due stanze dell’eco rivali. Hillary ha sfoderato la sua classica battuta «Donald, so bene che vivi in un mondo tutto tuo». Quella di Trump è stata involontariamente più spiritosa e rivelatrice: «Credo che il miglior collaboratore di Hillary in campagna elettorale siano i media tradizionali». È una frase tipica di tanta retorica populista imperversante nel mondo, dagli Usa alla Francia, alla Polonia, all’India, che presenta i propri sostenitori come gruppo sotto attacco, oppresso dalle potenti elite liberali, spacciandoli per l’unica ‘gente vera’ (espressione spesso usata da Nigel Farage dell’Ukip).
La destra populista è più distorsiva, ma bisogna ammettere che la polarizzazione tendenziosa dei media, il semplicismo urlato, le stanze dell’eco, affliggono tutte le parti in campo. Nonostante siano liberi, privi di censure ed eterogenei, i media statunitensi costituiscono sempre meno la pubblica piazza condivisa che serve alla democrazia deliberativa. Un nobile cliché americano ci invita a credere nel “mercato delle idee”. In questa elezione sperimentiamo una crisi di mercato nel mercato delle idee.
Traduzione di Emilia Benghi