Repubblica 8.10.16
Se il referendum spacca il Paese
Il confine tra politica e antipolitica è sempre più labile nella campagna elettorale
di Stefano Rodotà
GUARDANDO
 alle discussioni sul referendum costituzionale, sembra ogni giorno più 
difficile segnare un confine tra politica e antipolitica, stabilire dove
 finisce l’una e comincia l’altra. Un manifesto come quello che chiede 
ai cittadini “Vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì”, 
incorpora clamorosamente l’antipolitica, le attribuisce una 
legittimazione che finora le era mancata. Ma quali rischi accompagnano 
questa legittimazione in un periodo in cui è forte la sfiducia dei 
cittadini verso le istituzioni, grande il loro bisogno di 
partecipazione, sempre più intensa la ricerca di modalità di 
rappresentanza diretta?
È sempre più evidente che la lunga, e per 
molti versi violenta, campagna elettorale, tutt’altro che conclusa, ha 
già determinato profonde divisioni proprio sul terreno costituzionale, 
dove la logica dovrebbe essere piuttosto quella del reciproco 
riconoscimento di principi comuni. E gli interventi continui, e assai 
spesso aggressivi, del presidente del Consiglio certo non contribuiscono
 a crearne le condizioni. Il rischio è che, quale che sia l’esito del 
referendum, una parte significativa dei cittadini possa non riconoscersi
 nel risultato del voto. Bisogna ricordare che ai tempi dell’Assemblea 
costituente la preoccupazione era stata proprio quella di non dividersi,
 tanto che fu possibile un accordo sui temi fondamentali malgrado la 
guerra fredda e l’estromissione dal governo di comunisti e socialisti.
Il
 legame stretto tra la legge elettorale, l’Italicum, e la riforma 
costituzionale aveva suscitato legittime preoccupazioni per le forme di 
concentrazione di potere che avrebbe determinato, cambiando in maniera 
significativa gli stessi equilibri istituzionali. Le modifiche 
all’Italicum, più ventilate che tradotte in impegni effettivamente 
vincolanti e alle quali si era riferita la minoranza del Pd, 
condizionando ad esse il suo consenso, non potrebbero comunque avere 
l’effetto di rendere accettabile la riforma.
È persino 
imbarazzante, per la pochezza dei contenuti e del linguaggio, leggere il
 testo al quale è stato consegnato il compito impegnativo di riscrivere 
ben quarantatré articoli della Costituzione. L’intenzione dichiarata è 
quella di semplificare le dinamiche costituzionali, in particolare il 
procedimento legislativo. Ma per liberarsi dal tanto deprecato 
bicameralismo paritario si è approdati invece a un bicameralismo che 
generosamente potrebbe esser detto pasticciato. Neppure gli studiosi più
 esperti sono riusciti a dare una lettura univoca del numero delle nuove
 e diverse procedure di approvazione delle leggi. Ma l’attenzione 
critica si è giustamente rivolta anche alla composizione del nuovo 
Senato, che sembra essere stata concepita per renderne quanto mai arduo,
 e per certi versi impossibile, il funzionamento. Il compito affidato ai
 nuovi senatori, infatti, è assai difficile da conciliare con il loro 
primario compito istituzionale. Si tratta, infatti, di consiglieri 
regionali e sindaci. E proprio il ruolo assunto in particolare dai 
sindaci nell’ultimo periodo, divenuti determinanti per il rapporto tra 
cittadini e istituzioni, rende inaccettabile o concretamente impossibile
 una loro presenza attiva e informata come senatori. Non potendo 
svolgere una vera e incisiva funzione istituzionale, i nuovi senatori 
frequenteranno Palazzo Madama come una sorta di dopolavoro?
 
