Repubblica 7.10.16
Il piccolo Davide e il diritto a una morte dignitosa
Anche
la chiesa cattolica ormai considera lecito «sospendere l’applicazione
delle cure quando i risultati non rispondono all’aspettativa», tenendo
conto del «giusto desiderio del malato e dei suoi cari» (Enciclica
Evangelium Vitae)
di Giuliano Pisapia
CI SONO
fatti che ti colpiscono in modo particolare, che non riesci a toglierti
dalla testa, che ti fanno pensare a un’ingiustizia che va sanata a tutti
i costi. Non mi riferisco qui alle guerre, alla povertà, alle grandi
tragedie di cui leggiamo ogni giorno con angoscia, ma a situazioni
drammatiche, che possono sembrare “piccole”, ma alle quali si può porre
rimedio. Così, da quando il 5 ottobre ho letto su Repubblica la storia
di Davide, nato senza reni e senza apparato urinario, affetto da una
«malattia costantemente infausta», senza alcuna possibilità di
sopravvivenza, condannato a morire presto ma intanto «trattato come
cavia»; da quando ho letto le parole dei suoi genitori «oggi viviamo il
dramma, sì all’eutanasia, lasciar andare è un atto d’amore», ho pensato
che questo è un tema che è ora di affrontare, con il cuore caldo e la
mente fredda. Perché, come scriveva già Indro Montanelli, «se noi
abbiamo un diritto alla vita abbiamo anche un diritto alla morte». Un
diritto a decidere il quando e il come della nostra morte.
Non c’è
giorno in cui, in qualche casa, in qualche ospedale, in qualche
famiglia non si ponga, concretamente, il tema del diritto a una morte
dignitosa.
Il diritto di scegliere se, e come, interrompere la
propria sopravvivenza. Accade in presenza di patologie non curabili, di
malattie alla fase terminale, di sofferenze non più sopportabili, di
quella che è stata definita “non vita” in quanto ormai priva di ogni
dignità. È un tema difficile, delicato, che pone domande e crea dubbi.
Di carattere etico, filosofico, religioso, ma che deve essere
affrontato, tenendo conto della realtà e della situazioni concrete. Non
ci si può limitare a rimuoverlo, bisogna avere il coraggio di
affrontarlo, uscendo dagli schemi, superando le ideologie, rispettando
le diverse opinioni ma, anche, rispettando la volontà di chi soffre e
dei suoi familiari.
Da tempo, in Parlamento, vi sono proposte di
legge che, in passato, avevano soprattutto l’obiettivo di aprire la
discussione, cercare soluzioni, anche legislative, per permettere, con
tutte le cautele necessarie, con tutti i controlli doverosi, di
rispettare la volontà di chi si trova in una situazione di sofferenza
non più sopportabile, di malattia non più curabile. E dargli la
possibilità di scegliere se proseguire una vita “meramente apparente”,
evidentemente con l’aiuto e l’assistenza di medici, psicologi, familiari
e, perché no, amici.
È giusto parlare, oltre che di “vita
dignitosa”, anche di “morte dignitosa”? Credo di sì, lo dobbiamo a chi
si trova in condizioni disperate e senza speranza di un futuro. In una
lettera, che risale a molti anni fa, un medico che si occupava di malati
terminali scriveva «…nei loro occhi, negli ultimi giorni della loro
vita, ho letto la voglia di farla finita. Qualcuno mi ha chiesto
espressamente di aiutarlo in questo senso. La mia coscienza, l’etica, la
fede, il senso di umanità, la cultura hanno vacillato. E oggi mi chiedo
se questo mostro quasi impronunciabile, l’eutanasia, sia da giudicare
assolutamente impraticabile». Proprio in quei giorni da un’indagine di
ricercatori dell’Università cattolica, svolta nei centri di terapia
intensiva, emergeva che circa il 4 per cento dei rianimatori che
assistevano persone in situazione estremamente critica avrebbe praticato
la cosiddetta “eutanasia attiva” e che l’80 per cento aveva attuato
almeno una volta quella passiva, staccando la spina del respiratore,
spesso senza consultare il paziente (i questionari erano evidentemente a
risposta anonima). Sono passati quasi 15 anni e, credo o temo, che
quelle percentuali non siano affatto diminuite.
Certo, da allora
sono stati fatti indubbi passi avanti sulla terapia antidolorifica ed è
cresciuta nel Paese la contrarietà a ogni tipo di accanimento. Del resto
il divieto di accanimento terapeutico ha trovato piena legittimità: a
livello europeo con la Convenzione di Oviedo per la protezione dei
diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano (sottoscritta e
ratificata nel nostro paese), in Italia col nuovo codice di deontologia
medica. Anche la chiesa cattolica ormai considera lecito «sospendere
l’applicazione delle cure quando i risultati non rispondono
all’aspettativa», tenendo conto del «giusto desiderio del malato e dei
suoi cari» (Enciclica Evangelium Vitae).
Sulla “dolce morte”
invece nessun passo avanti, malgrado le sempre più numerose proposte di
legge depositate in questi anni in Parlamento. Altri Paesi quella strada
l’hanno intrapresa, con precisi paletti e con regole tassative tali da
garantire la persona malata, i suoi familiari, i medici e la
collettività. Si potrebbe prevedere la non punibilità del medico che
pratica l’eutanasia se rispetta precise condizioni e procedure. Mi
limito ad accennarne alcune. Il paziente deve essere capace di intendere
e volere al momento della richiesta di eutanasia (se non in grado di
decidere autonomamente, a causa della malattia, possono farla i
familiari); la richiesta deve essere volontaria, ponderata e ripetuta e
non deve esserci stata alcuna pressione esterna; chi chiede la “dolce
morte” deve essere affetto da una malattia con prognosi infausta e in
fase terminale, senza alcuna prospettiva di sopravvivenza; le sue
sofferenze fisiche o psichiche devono essere costanti e insopportabili
tanto da non poter essere eliminate con trattamenti farmacologici. Il
medico deve, previo consulto con altro medico e con l’équipe sanitaria,
dare piena informazione al paziente sulle prospettive di vita e su
eventuali efficaci trattamenti palliativi. Una Commissione nazionale, di
cui facciano parte medici, psicologi, professori universitari e anche
esperti di materie giuridiche, dovrà verificare, qualora vi siano dei
dubbi, se siano state rispettate le condizioni e le procedure previste
dalla legge.
Pur nella piena consapevolezza della difficoltà e
della delicatezza di un simile percorso, certo non breve, non si può
continuare a rimuovere il problema, a far finta di non sapere, a
nascondere la realtà: sarebbe la scelta peggiore. Meglio fare il
possibile per cercare una soluzione giusta, ragionevole e praticabile.
In caso contrario forte sarà il rischio che, come già è accaduto e sta
accadendo, aumentino sempre di più coloro che finiranno col fare un
percorso diverso: sfideranno la vita o cercheranno la morte, in luoghi,
anche a noi vicini, che potrebbero non dare quelle garanzie e tutele che
uno Stato laico deve sempre poter dare. Non è, e non sarà facile, ma
credo sia ora di provarci.
(Con questo articolo l’autore, ex sindaco di Milano, inizia la sua collaborazione con Repubblica)