Repubblica 7.10.16
Atenei, il piano contro gli abusi
Non sono io ma riviste come “Nature” a mettere in relazione ingiustizie e fuga dei cervelli
Ora contrasteremo questi fenomeni in maniera decisa coinvolgendo il Miur, i rettori, i docenti e gli studenti
di Raffaele Cantone
CARO
direttore, un mio recente intervento all’Università di Firenze ha
prodotto reazioni contrastanti e in qualche caso sproporzionate, sia
rispetto alle mie affermazioni, sia rispetto ai problemi che affliggono
le università italiane. In quella occasione, al termine di un intenso
dibattito sul fenomeno in generale e sugli strumenti per contrastarlo,
avevo richiamato situazioni di corruzione o di cattiva amministrazione
segnalate all’Anac.
E AVEVO svolto qualche considerazione sulle
conseguenze che queste situazioni producono. L’opinione pubblica infatti
non percepisce più la corruzione soltanto nel senso giuridico di reato
contro la pubblica amministrazione, ma come un danno che viene fatto
alla collettività, azzerando la competitività e il merito.
Semplificando,
due sono state le principali reazioni. Da un lato si è provato a
sdrammatizzare, arrivando sostanzialmente a negare la rilevanza del
fenomeno («ma che corruzione; i problemi sono altri, a cominciare dalla
scarsità di risorse») e a chiedere, persino, che io ritrattassi.
Dall’altro si è giunti alla conclusione che tutta l’università italiana è
corrotta, che il male è endemico e incurabile.
La tesi della
sdrammatizzazione non è tipica del solo mondo accademico: l’esperienza
dell’Autorità che presiedo evidenzia come la prima reazione della
burocrazia è quella di negare il problema («noi siamo immuni rispetto
alla corruzione»). Se, però, li si guida nell’analisi della
vulnerabilità al rischio corruttivo, il discorso cambia e diventa
percorribile (e condivisa) la ricerca di misure efficaci di
contenimento. Un lavoro che stiamo facendo, analizzando i piani di
prevenzione della corruzione e stilando il nuovo piano triennale, con
risultati giudicati positivi, nella sanità e in altri settori “caldi”
della pubblica amministrazione.
Nello specifico universitario,
però, non mi pare affatto realistico circoscrivere, come eccezionali, i
fenomeni del “nepotismo” o della presenza di situazioni di conflitto di
interessi, tanto più rilevanti in quanto rischi “connaturati” ad
ambienti retti dalle regole dell’autonomia e della valutazione affidata a
componenti della comunità scientifica.
I fenomeni non riguardano
certo l’intero mondo universitario, ma sono purtroppo radicati e
valgono, sia pure in percentuali minoritarie, a condizionare
negativamente il concreto funzionamento degli atenei e la loro immagine
esterna.
Inoltre, la connessione tra corruzione e “fuga dei
cervelli” - che tanto ha scatenato la protesta di alcuni docenti - non è
(purtroppo) una mia idea estemporanea, ma il frutto di studi
internazionali riportati su una rivista di valore indiscusso ( Nature)
che non dovrebbe certo essere ignota ai ricercatori del nostro Paese.
Quegli studi dimostrano come ambienti in cui la selezione (delle persone
e dei progetti di ricerca) non premia effettivamente (e in modo
riconosciuto) il merito scientifico, decadono, si chiudono in una
dimensione provinciale e vengono abbandonati dai migliori talenti.
Nessuno mette in discussione la capacità dei nostri atenei di produrre
“cervelli” di eccellente qualità ma questo (purtroppo) non significa che
essi siano poi premiati, nella carriera universitaria e nell’accesso ai
finanziamenti.
Non condivido affatto nemmeno la reazione opposta
che non va affatto nella direzione che le politiche anticorruzione
vogliono produrre. Dipingere l’intero sistema come inguaribilmente
corrotto oltre ad essere un falso, spinge a credere che non ci sia più
nulla da fare e fornisce argomenti a chi, anche per un diffuso
atteggiamento demagogico e antiscientifico, mira nella sostanza a
ridimensionare il ruolo delle nostre università.
So bene, invece,
sia per avere figli che studiano all’Università sia per essere titolare
di un incarico (gratuito) di docenza che la scarsità delle risorse è
forse uno dei maggiori problemi, imponendo ai tanti ricercatori onesti
enormi sacrifici non adeguatamente retribuiti e spingendo altri a
trovare sistemazioni migliori.
Ma mi chiedo – e questo era il
senso del mio intervento fiorentino – non è forse il modo migliore per
ripristinare immagine, credibilità e prestigio dell’Università e di
conseguenza chiedere con forza a Governo e Parlamento di investire di
più, quello di poter dimostrare che i migliori faranno carriera, che
nepotismo e baronato sono relegati al passato e che i fondi saranno
spesi virtuosamente? Non è nascondendo la spazzatura sotto i tappeti che
si farà il bene della nostra università!
Nella logica propositiva
che caratterizza il ruolo dell’Anac, vogliamo provare a fare la nostra
parte. Non chiediamo nuove leggi; vogliamo, invece, contribuire a far
applicare quelle che ci sono, senza aggiramenti – come è avvenuto in
qualche caso con riferimento ai sacrosanti divieti introdotti dalla
legge Gelmini per evitare favoritismi fra parenti – per perseguire la
massima trasparenza nelle scelte più rilevanti che le comunità
scientifiche sono chiamate a svolgere nell’interesse del paese.
L’occasione
potrà essere il nuovo Piano nazionale anticorruzione 2017 che dedicherà
un capitolo a questo tema, provando a suggerire alle università misure
concrete di contrasto: misure che poi ciascuna di esse dovrà adattare
alla propria situazione organizzativa. Il tutto non con una logica
autoreferenziale, ma coinvolgendo attivamente Ministero, rettori,
atenei, professori, ricercatori e studenti.