Repubblica 7.10.16
Noi, estenuati alla meta
di Michele Ainis
IL
REFERENDUM? Per mettere pace ci vorrebbe un reverendum, con
l’aspersorio e l’acqua benedetta. Nel frattempo si litiga su tutto,
anche sul nome del litigio, sull’intitolazione del quesito che leggeremo
nella scheda elettorale.
SICCOME da qui al voto mancano ancora
due mesi, siccome ogni giorno divampano incendi tra i due fronti, è il
caso d’avanzare un paio di domandine. Primo: ma è normale tutto questo
accanimento? È andata così pure le altre volte o c’è invece un elemento
straordinario nel nuovo referendum? Secondo: quale sedativo potrà sedare
gli animi? Giacché il 4 dicembre non finirà la storia dell’Italia; però
questa lunga zuffa — ha osservato Mario Calabresi — rischia
d’incenerire qualsiasi possibilità di dialogo, lasciandoci viandanti in
un paesaggio di macerie.
Non che ogni scontro d’opinioni
costituisca una sciagura. Anzi: i conflitti sono il sale della
democrazia, a differenza dei regimi autoritari, che li mettono a tacere
con la forza. Non per nulla la Costituzione stessa regola il conflitto
tra i poteri dello Stato. Come regola, d’altronde, il referendum, che è
conflitto senza vie di mezzo, senza compromessi: o sì o no, nessuno
spazio per il nì. Tanto più ove non sussista un quorum per la validità
del referendum, come in questo caso. La notte del 4 dicembre ci saranno
un vinto e un vincitore, non un risultato nullo, anche se andassero alle
urne 6 italiani su 60 milioni. Ovvio perciò che i favorevoli e i
contrari si spendano senza risparmio d’energie, tanto non c’è un tempo
supplementare da giocare.
Un po’ meno ovvio, viceversa, è che i
bollori si trasformino in carte bollate, in una pioggia di querele e di
ricorsi giudiziari. Che in attesa del referendum l’attività legislativa
sia sospesa, dalla legge sulla concorrenza alla riforma della
prescrizione, dall’introduzione del reato di tortura alle nuove regole
sulle adozioni. E che ciascuno prefiguri la vittoria altrui come
un’apocalisse, un finimondo. Negli altri due referendum costituzionali
fin qui celebrati — nel 2001 e nel 2006 — non si respirava questo clima
da tregenda. Stavolta sì. Ecco: perché?
Lì per lì, saremmo tentati
di rispondere che è colpa d’una campagna referendaria cominciata troppo
presto, destinata a finire troppo tardi. Dalla primavera all’inverno,
quanto basta per incrudelire gli animi. Ma non è così, basta fare un po’
di conti. Nel 2001 la riforma del Titolo V fu approvata in Parlamento
l’8 marzo; il referendum si tenne il 7 ottobre; trascorsero perciò 213
giorni fra il voto dei parlamentari e il voto dei cittadini. Invece la
Devolution ricevette il suo battesimo il 16 novembre 2005; venne
sottoposta agli elettori il 25 giugno 2006; ergo in quel caso la
campagna referendaria si prolungò per 221 giorni. E adesso? La riforma
Boschi è stata timbrata dalle Camere il 12 aprile di quest’anno; il
referendum si terrà il 4 dicembre; dunque lo spazio temporale s’allunga
fino a 236 giorni. Un paio di settimane in più rispetto alle occasioni
precedenti, ma dopotutto è poca cosa. Non può essere questa la ragione
della frattura verticale che sta dividendo gli italiani.
Difatti
la ragione è un’altra, così visibile da riuscire invisibile, come la
«Lettera rubata» di Allan Poe. E sta nel fatto che per la prima volta il
referendum cade durante la legislatura che ha varato la riforma, mentre
impera la stessa maggioranza, lo stesso esecutivo. Sia nel 2001, sia
nel 2006 si svolsero elezioni politiche, fra l’approvazione della
riforma costituzionale in Parlamento e la sua sottoposizione a
referendum; e con le elezioni cambiò la faccia dei governi. Nel 2001
sostituendo al gabinetto Amato un esecutivo Berlusconi; nel 2006
sostituendo Prodi a Berlusconi. Sicché in entrambi i casi la campagna
referendaria cominciò, di fatto, soltanto dopo il turno elettorale; e la
tensione politica si scaricò sulle elezioni, non sul referendum.
Sterilizzandolo, o almeno depurandolo dalle sfide di partito.
Stavolta
capita il contrario. Ecco perché gli aspetti politici prevalgono sul
merito costituzionale del quesito, perché ne va di mezzo la
sopravvivenza del governo, se non della legislatura. Una contaminazione
che non fa bene alla politica, che fa malissimo alla Costituzione.
Morale della favola: hanno ragione i belgi. La loro Carta (art. 195)
prescrive infatti la dissolution automatique delle Camere, quando
decidono d’aprire un procedimento di revisione costituzionale. In
pratica, con quella decisione il Parlamento del Belgio si suicida. Noi
invece, a quanto pare, al suicidio preferiamo l’omicidio.