Repubblica 6.10.16
Così Bernini si ribellò alle regole del potere
Un saggio di Montanari sul volto eretico dell’artista
di Tomaso Montanari
Nel
1963 il rivoluzionario “Patrons and Painters” di Francis Haskell
rifondò il modo di guardare al Seicento romano. Per Haskell, «Bernini fu
il genio dell’epoca... non si possono immaginare rapporti più fruttuosi
tra un artista e i suoi mecenati»: «Maffeo Barberini dovette
rassegnarsi ad attendere il suo momento, accontentandosi di scrivere in
latino acuti epigrammi moraleggianti sul gruppo di Apollo e Dafne, e di
reggere lo specchio all’artista
perché questi potesse dare al
David i propri lineamenti. Nel frattempo egli doveva già prevedere che,
una volta venuto il suo momento, avrebbe consentito allo scultore di
esprimere il suo talento in maniera ben più spettacolare che non in
queste opere certamente piacevoli, ma tutto sommato minori. Quel momento
venne nel 1623. Il 6 agosto, dopo un burrascoso conclave, Maffeo
Barberini coronò le proprie ambizioni e fu eletto papa, assumendo il
nome di Urbano VIII».
Una perfetta storia d’amore, dunque.
Tuttavia, Haskell insinuò tra le proprie considerazioni un’esplicita
contraddizione: e cioè il dubbio, capitale e fecondo, che l’«espressione
più pura del genio di Bernini» si registri proprio quando egli può
essere «finalmente libero dai consigli di un committente». Ecco dunque
affiorare la questione: la libertà di Bernini, il suo attrito – se non
ancora il conflitto – con la società del suo tempo.
È proprio vero che l’epigramma di Maffeo Barberini per
Apollo
e Dafne fu un innocuo passatempo erudito? L’episodio dello specchio è
solo un aneddoto cortigiano? E, domanda più impegnativa, possiamo
guardare a Urbano VIII come al naturale amplificatore di una naturale
vocazione di Bernini? Ancora: Bernini avrebbe approvato la gerarchia
secondo la quale il Ratto di Proserpina, l’Apollo e Dafne e il David
andrebbero considerati “opere minori” rispetto alle grandi macchine
sacre che egli allestì in Vaticano nei successivi cinquant’anni?
Sarebbe
vano cercare le risposte nella vastissima letteratura berniniana
fiorita negli ultimi decenni: in verità, non vi si trovano neanche
domande simili a queste. Io stesso non me le sono poste, finora: o,
almeno, non esplicitamente. Ma a un certo punto mi sono sorpreso a
pensare che l’incontrovertibile verità storica per cui Gian Lorenzo
Bernini è stato l’artista più potente, ricco e realizzato dell’Italia
secentesca, e in particolare «il dittatore artistico di Roma», non fosse
affatto incompatibile con una lettura più articolata e complessa del
suo rapporto con i committenti, con la tradizione, con le regole
dell’arte e della società del suo tempo. Nel coerente e solido edificio
dell’agiografia berniniana – a partire dai dettagliatissimi atti della
sua precoce canonizzazione storiografica: le biografie — si apre un
discreto numero di fenditure, di evidenti incoerenze, di singolari salti
di senso. Bisogna provare a connettere questi indizi, a incastrarli con
documenti noti e ignoti e a farli reagire con alcune intuizioni
storiografiche poco sviluppate: e, quindi, a rileggere in questa nuova
luce sperimentale quelle opere che avvertivano che qualcosa ancora
mancava al loro pieno intendimento.
L’idea generale è che Bernini
si sia sentito, e sia stato, in conflitto con ciò che si può chiamare,
con una certa approssimazione retorica, le regole del potere. Gian
Lorenzo è stato un artista capace di sacrificare una parte del proprio
successo pur di difendere la sovranità sulla propria arte, in un
confronto serrato e spesso anche duro con i più augusti e potenti fra i
committenti. Non si tratta di smentire l’immagine che si è consolidata
dal Seicento fino alla letteratura scientifica dei nostri giorni: quella
dell’artista dei papi e dei gesuiti, del conformista cortigiano in
perpetua luna di miele con i suoi mecenati. Si tratta, invece, di vedere
cosa c’era dietro questa retorica, accuratamente costruita dallo stesso
Bernini attraverso un’immagine storiografica capace di imbrigliare,
fino a oggi, la lettura della figura e dell’arte del suo eroe.
Per
leggere in modo critico, e in qualche misura per smontare, questa
impressionante macchina di propaganda è indispensabile innanzitutto
ricostruirne gli obiettivi immediati: e dunque far resuscitare la vasta –
ma completamente dimenticata – letteratura antiberniniana cui essa
rispose con tanta, troppa, efficacia.
In quei testi contro Bernini
è infatti possibile trovare molte delle chiavi che oggi abbiamo
perduto. Ed è con un rinnovato mazzo di chiavi che si può tentare di
riaprire alcune porte, pur frequentatissime dagli studi berniniani: come
quella del rapporto con i committenti o con l’ortodossia del pensiero
sull’arte. E altre porte, finora del tutto sconosciute, si apriranno:
per esempio quella del ruolo cruciale dell’atelier dell’artista, tema
che diventa tanto più centrale quanto più ci si avvicina al Novecento.
Occorre
ridiscutere il posto che spetta a Bernini in quella che vorrei ancora
chiamare la linea evolutiva della storia dell’arte moderna. È venuto il
tempo di contestare lo schema che oppone a un Bernini prigioniero del
suo tempo l’icona – moderna: anzi, senza tempo – di un apocalittico
Caravaggio: tutto il contrario, perché la strada del conflitto che
Bernini percorse era proprio quella aperta da Caravaggio.
L’obiettivo
è quello di restituire un Bernini diverso. Un Bernini diviso tra la
tentazione di far sparire ogni segno di conflitto (per consegnarsi ai
posteri come una specie di santo taumaturgo dell’arte figurativa), e la
contrastante pulsione a far invece emergere precise spie del suo
malessere, della sua insoddisfazione, della sua vera e propria
ribellione: da una parte il Bernini che «diceva che il portarsi ad
operare era a lui uno andare a deliziarsi al giardino », dall’altra
quello che, citando Michelangelo, sibilava: «Nelle mie opere caco
sangue».
IL LIBRO La libertà di Bernini di Tomaso Montanari (Einaudi, pagg. 324, euro 42)