Repubblica 6.10.16
Propaganda e colpi bassi
di Stefano Folli
IL
RICORSO al Tar di M5S e Sinistra italiana contro la formula del quesito
referendario fa parte della guerra di nervi che ci accompagnerà nei
prossimi due mesi.
È facile prevedere che il conflitto tenderà a
inasprirsi, dal momento che nessuno dei due fronti, il Sì e il No,
dispone di un argomento definitivo in grado di garantirgli una larga
vittoria in anticipo.
La polemica intorno al quesito che compare
sulla scheda elettorale può sembrare un aspetto minore di tale guerra e
come tale destinato a estinguersi presto. C’è chi osserva, non a torto,
che quel che conta non è la domanda, bensì la risposta popolare (ossia
Sì o No al nuovo testo costituzionale). E in fondo il dibattito dovrebbe
svilupparsi nel Paese, se possibile su un piano politico-culturale più
elevato dell’attuale, non nelle aule di un tribunale amministrativo. Ma
tant’è. Il Quirinale, tirato in ballo in modo improprio dai ricorrenti,
si è affrettato a precisare che il quesito, così come è stampato sulle
schede, è una prerogativa della Corte di Cassazione e riflette il titolo
della riforma Boschi.
In sostanza, il capo dello Stato non
c’entra: egli si è limitato a firmare il decreto del governo che indice
il referendum per il 4 dicembre. È una precisazione perentoria che in un
certo senso potrebbe chiudere il caso. Tuttavia la questione sollevata
appare insidiosa nel merito. In primo luogo perché tra i firmatari del
ricorso ci sono due avvocati liberali, Vincenzo Palumbo e Giuseppe
Bozzi, i quali — insieme a Felice Besostri — si sono distinti per essere
riusciti a suo tempo nell’impresa di affossare il Porcellum, ossia
l’antenato dell’Italicum. Si tratta di giuristi abituati a combattere
intorno alle sfumature e a cercare il pelo nell’uovo fra le piccole
contraddizioni delle leggi. Ora sono di nuovo in campo con la tesi che
il quesito referendario è truffaldino, concepito come strumento di
propaganda governativa. Tesi non facile da dimostrare e l’aver fatto un
po’ di confusione fra Quirinale e Cassazione certo non aiuta.
È
anche possibile, come sostiene qualcuno, che il Tar non sia abilitato a
impugnare una pronuncia della Cassazione. E in ogni caso è evidente
l’intreccio fra dimensione politica della contesa e la sua cornice
giuridica. Detto questo, il ricorso poggia su un’interpretazione
dell’articolo 16 della legge 352 del 1970, quella che regola il
referendum nelle varie ipotesi, compresa la revisione costituzionale.
Sotto tale aspetto, il ricorso non sembra campato in aria. L’articolo 16
prescrive di indicare, quando si tratta di revisione della Carta, gli
articoli oggetto della legge e il loro contenuto. In questo caso, gli
articoli sono 47 e la scheda — se fosse accettata tale lettura —
dovrebbe assomigliare a un lenzuolo.
Viceversa si è scelto di
privilegiare il titolo di sintesi della riforma, effettivamente
riportato sulla scheda. Il problema è che lo stesso articolo 16 ammette
tale possibilità, ma in apparenza la limita ad articoli immessi “ex
novo” nel corpo della Costituzione. Quando invece si tratta di una
“revisione” di articoli già esistenti — ed è l’esempio della riforma
Boschi — occorre procedere con il catalogo anodino di tutti i punti
coinvolti. Uno per uno. Quindi non ci sarebbe spazio per una formula
accattivante, utile per blandire gli elettori propensi al Sì.
Come
si capisce, siamo solo all’inizio di una campagna che sarà ricca di
colpi bassi. Dalla sinistra del Pd ai Cinque Stelle si tenta
l’accerchiamento di Renzi e la polemica sul quesito non è nemmeno il
punto d’attacco più importante. Nonostante il suo noto dinamismo, il
presidente del Consiglio dà l’impressione di essere un po’ sulla
difensiva. Il duro editoriale del Financial Times (la riforma come “un
ponte verso il nulla”...) dimostra le sue crescenti difficoltà.
All’interno i sondaggi non sono favorevoli. E nella comunità
internazionale il cambio di passo dell’importante giornale inglese
segnale che esistono dubbi sulla riforma e forse sulla stessa tenuta del
premier. Qualche mese addietro non sarebbe accaduto.