giovedì 6 ottobre 2016

Repubblica 5.10.16
Il rischio demagogia
di Piero Ignazi

DEMAGOGIA, non oligarchia è la forma corrotta della democrazia che rischiamo in questi tempi. Il timore della formazione di una nuova oligarchia paventata da Gustavo Zagrebelsky nel suo dibattito con Matteo Renzi, e commentata con accenti diversi da Eugenio Scalfari e Nadia Urbinati, non è altro che la rappresentazione di una realtà. Ma non sul versante politico. Piccoli gruppi portatori di interessi particolari dominano l’economia, non la politica. In politica, semmai scontiamo un deficit di rappresentatività e rispondenza delle élite, non l’arroccarsi al potere di un ristretta componente in grado di determinare i destini di una nazione. Pensiamo alla campagna “napoleonica” con cui Matteo Renzi ha sbaragliato avversari consolidati, sulla scena da decenni. Grazie alla sua Austerlitz, una nuova generazione è arrivata nella stanza dei bottoni. Lo stesso vale, piacciano o meno i loro messaggi e il loro stile, per i 5 Stelle che hanno immesso in Parlamento un’ampia schiera di matricole. La politica italiana è quindi in una fase di tumultuoso rinnovamento che sta mescolando le carte in maniera frenetica. Chi poteva pensare che nell’arco di due anni un “giovanotto” (detto in termini puramente anagrafici) sconosciuto a tutti come Luigi di Maio fosse un potenziale aspirante al ruolo di presidente del consiglio? Tutto bene allora? Ovviamente no, per una ragione molto semplice: questi due esempi di rinnovamento sono avvenuti tumultuosamente, fuori da binari definiti, in una sorta di processo rivoluzionario, scuotendo dalle fondamenta il ruolo e il prestigio del partito politico in quanto tale. Guardiamo al caso britannico per capire la differenza. Passata la Brexit, il partito conservatore ha attivato il ricambio della leadership al suo interno, in maniera rapida ed efficiente, seguendo regole ben rodate. Questo perché i partiti in Gran Bretagna hanno ancora l’autorevolezza per guidare la politica. Non devono “appellarsi al popolo” per governare. Hanno ricevuto un mandato e lo esercitano. E se falliscono, come nel caso di David Cameron, rassegnano le dismissioni lasciando ad altri il compito di proseguire.
In Italia, la tensione che si respira con l’avvicinarsi del referendum, di cui hanno parlato, con accenti diversi, Guido Crainz e Roberto Esposito, riflette lo smarrimento per la perdita di ancoraggi collettivi, rappresentati un tempo dai partiti. Il loro sgretolamento identitario ed organizzativo — o la loro reinvenzione in forme ancora indefinite come nel caso dei grillini — lascia un vuoto nella società. Privi di un riferimento consolidato i cittadini fluttuano in un ambiente politico liquido e sono per questo più sensibili di un tempo a richiami “essenziali”, anche brutali nella loro schematicità: pensiamo allo slogan leghista “padroni in casa nostra”, a quanto di primordiale — ma di efficace — esso faccia riferimento. Pura, devastante demagogia.
La radicalità del confronto sul referendum, con tutto il disagio che Esposito segnalava, viene dal deterioramento di attori collettivi capaci di metabolizzare e delimitare i conflitti. L’onda anti-partitica viene da lontano nel nostro Paese e continua a montare. Certo, i partiti hanno mille difetti, e sono ai livelli minimi nella considerazione dei cittadini, in Italia come altrove. Ma sono l’unica stanza di compensazione possibile per gestire le diverse posizioni. Senza partiti radicati nella società, impegnati — ancora e di nuovo — a trasmettere le esigenze e le domande dei cittadini, si apre un varco all’irruzione dei demagoghi. Donald Trump non sarebbe mai arrivato alla nomination se il partito repubblicano non fosse stato squassato dal Tea party. L’antidoto ad un imbarbarimento della politica sta in partiti forti ed aperti alla società. Purtroppo è un auspicio più che una realtà.