Repubblica 5.10.16
Il rischio demagogia
di Piero Ignazi
DEMAGOGIA,
non oligarchia è la forma corrotta della democrazia che rischiamo in
questi tempi. Il timore della formazione di una nuova oligarchia
paventata da Gustavo Zagrebelsky nel suo dibattito con Matteo Renzi, e
commentata con accenti diversi da Eugenio Scalfari e Nadia Urbinati, non
è altro che la rappresentazione di una realtà. Ma non sul versante
politico. Piccoli gruppi portatori di interessi particolari dominano
l’economia, non la politica. In politica, semmai scontiamo un deficit di
rappresentatività e rispondenza delle élite, non l’arroccarsi al potere
di un ristretta componente in grado di determinare i destini di una
nazione. Pensiamo alla campagna “napoleonica” con cui Matteo Renzi ha
sbaragliato avversari consolidati, sulla scena da decenni. Grazie alla
sua Austerlitz, una nuova generazione è arrivata nella stanza dei
bottoni. Lo stesso vale, piacciano o meno i loro messaggi e il loro
stile, per i 5 Stelle che hanno immesso in Parlamento un’ampia schiera
di matricole. La politica italiana è quindi in una fase di tumultuoso
rinnovamento che sta mescolando le carte in maniera frenetica. Chi
poteva pensare che nell’arco di due anni un “giovanotto” (detto in
termini puramente anagrafici) sconosciuto a tutti come Luigi di Maio
fosse un potenziale aspirante al ruolo di presidente del consiglio?
Tutto bene allora? Ovviamente no, per una ragione molto semplice: questi
due esempi di rinnovamento sono avvenuti tumultuosamente, fuori da
binari definiti, in una sorta di processo rivoluzionario, scuotendo
dalle fondamenta il ruolo e il prestigio del partito politico in quanto
tale. Guardiamo al caso britannico per capire la differenza. Passata la
Brexit, il partito conservatore ha attivato il ricambio della leadership
al suo interno, in maniera rapida ed efficiente, seguendo regole ben
rodate. Questo perché i partiti in Gran Bretagna hanno ancora
l’autorevolezza per guidare la politica. Non devono “appellarsi al
popolo” per governare. Hanno ricevuto un mandato e lo esercitano. E se
falliscono, come nel caso di David Cameron, rassegnano le dismissioni
lasciando ad altri il compito di proseguire.
In Italia, la
tensione che si respira con l’avvicinarsi del referendum, di cui hanno
parlato, con accenti diversi, Guido Crainz e Roberto Esposito, riflette
lo smarrimento per la perdita di ancoraggi collettivi, rappresentati un
tempo dai partiti. Il loro sgretolamento identitario ed organizzativo — o
la loro reinvenzione in forme ancora indefinite come nel caso dei
grillini — lascia un vuoto nella società. Privi di un riferimento
consolidato i cittadini fluttuano in un ambiente politico liquido e sono
per questo più sensibili di un tempo a richiami “essenziali”, anche
brutali nella loro schematicità: pensiamo allo slogan leghista “padroni
in casa nostra”, a quanto di primordiale — ma di efficace — esso faccia
riferimento. Pura, devastante demagogia.
La radicalità del
confronto sul referendum, con tutto il disagio che Esposito segnalava,
viene dal deterioramento di attori collettivi capaci di metabolizzare e
delimitare i conflitti. L’onda anti-partitica viene da lontano nel
nostro Paese e continua a montare. Certo, i partiti hanno mille difetti,
e sono ai livelli minimi nella considerazione dei cittadini, in Italia
come altrove. Ma sono l’unica stanza di compensazione possibile per
gestire le diverse posizioni. Senza partiti radicati nella società,
impegnati — ancora e di nuovo — a trasmettere le esigenze e le domande
dei cittadini, si apre un varco all’irruzione dei demagoghi. Donald
Trump non sarebbe mai arrivato alla nomination se il partito
repubblicano non fosse stato squassato dal Tea party. L’antidoto ad un
imbarbarimento della politica sta in partiti forti ed aperti alla
società. Purtroppo è un auspicio più che una realtà.