Repubblica 5.10.16
L’atto di fede del premier
Non era mai accaduto che l’Ufficio parlamentare di bilancio non validasse la nota di variazione del Documento di programmazione
di Massimo Giannini
HA
ragione il ministro del Tesoro Padoan: il programma economico del
governo Renzi «non è una scommessa». Purtroppo, allo stato attuale, è
qualcosa di ancora più incerto e ipotetico. È un vero e proprio “atto di
fede”.
Ma purtroppo o per fortuna viviamo in terra di infedeli. E
dunque bisogna rassegnarsi all’evidenza: i numeri che l’esecutivo ha
scritto nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza
per i prossimi tre anni sono scritti sull’acqua. È scritta sull’acqua la
previsione di una crescita all’1% per il prossimo anno, come confermano
da settimane tutti i maggiori istituti di ricerca italiani (l’ufficio
studi di Confindustria ci assegna un misero 0,5%) e da ieri anche il
Fondo monetario internazionale (che prevede uno scarso 0,9%). E non è
questione di sfiducia nelle misure della legge di bilancio, che secondo
Padoan sarà talmente potente da stimolare un aumento del Pil di quella
portata. È che quella previsione tanto rosea non regge alle prove
empiriche del passato. Lo ha denunciato l’Upb, Ufficio parlamentare di
bilancio: perché mai una riduzione del deficit dello 0,5% o il
disinnesco delle clausole di salvaguardia Iva dovrebbero far lievitare
il Prodotto interno lordo?
È scritta sull’acqua la previsione di
una stabilizzazione del debito pubblico, che invece lo stesso Fmi
prevede in crescita al 133,4% nel prossimo anno, e che non siamo
riusciti a scalfire neanche grazie al bazooka di Draghi, grazie al quale
paghiamo un rendimento sui Btp allo 0,55%, evento mai accaduto nella
storia, che in un anno ci ha fatto risparmiare 10 miliardi di interessi.
È scritta sull’acqua la stima di 3,5 miliardi di spending review, che
continuiamo a spacciare per “taglio selettivo della spesa improduttiva”,
mentre finisce sempre per essere taglio semi-lineare al Fondo
sanitario. E sono scritte sull’acqua anche le previsioni di aumento
degli investimenti (quelli pubblici addirittura dall’1,5 al 3,4%). Forse
è l’effetto-Ponte sullo Stretto, che fa già miracoli solo a parlarne?
La verità è che ci stiamo giocando l’osso del collo, con noi stessi e
con la Ue (l’Upb sostiene ad esempio che Bruxelles non ci concederà
ulteriore flessibilità). Sappiamo ancora poco o nulla della prossima
manovra, che dovrà vedere la luce entro il 15 ottobre. Ma è chiaro a
tutti che in un’Europa «sotto scacco elettorale» (sono parole del
premier), anche noi stiamo facendo la nostra parte, per illudere i
cittadini-elettori che i soldi ci sono, e che se non ci sono ce li
prenderemo lo stesso spezzando le reni alla perfida Albione, al momento
non più la Gran Bretagna ma la Germania.
La legge di stabilità
rischia di essere rinunciataria e poco ambiziosa. Servirebbe una vera
scossa (concentrata sul cuneo fiscale) e invece rischiamo di ritrovarci
la solita pioggerellina di mancette pre-elettorali, mascherate con
qualche buona intenzione apparentemente egualitaria (vedi la
quattordicesima sulle pensioni più basse). Renzi ha ancora una decina di
giorni per rimediare. Il sentiero è sempre più stretto, ma le
scorciatoie contabili o diplomatiche possono portarci in un vicolo
cieco.
C’è da vincere un referendum costituzionale, e questo per
il presidente del Consiglio può giustificare qualunque forzatura. Ma c’è
da chiedersi qual è il prezzo da pagare. È grottesco che Brunetta gridi
al “falso in bilancio”, da braccio armato del Cavaliere (forse il
massimo esperto della “materia”) ed ex ministro nel governo
berlusconiano delle cartolarizzazioni. Ma è un fatto che l’Ufficio
parlamentare di bilancio non ha validato il nuovo Def perché non lo
ritiene “credibile”, e questo non era mai accaduto. È un altro fatto che
per la prima volta dal 2014 la Spagna, senza governo da mesi e con una
crescita del 3,2%, ha da ieri uno spread migliore del nostro. È ancora
un ancora un altro fatto che la Banca centrale di Finlandia (come
Bloomberg o Credit Suisse) ha rivisto al ribasso tutte le stime in
Europa “a causa della Brexit e della situazione delle banche italiane”.
Ed è infine un ultimo fatto che il Financial Times, Bibbia della finanza
internazionale, che giudicava Renzi “l’ultima speranza dell’Italia” nel
gennaio 2015, ieri ha scritto che le sue riforme “sono un ponte sospeso
nel vuoto”. Tanti indizi, che tuttavia riflettono un dubbio crescente, e
convergente, sulla tenuta del Paese. Quasi a prescindere dall’esito del
referendum del 4 dicembre. Tocca al premier impedire che diventino una
prova.