lunedì 3 ottobre 2016

Repubblica 3.10.16
“Mettiamoci a giocare con Amleto”
Fabrizio Gifuni presenta il suo “Concerto” descrivendo il rapporto con il personaggio di Shakespeare e la forza terapeutica del teatro che costringe a tornare bambini
“Da adulti la facoltà di immaginarsi diversi non è più considerata una cosa seria”
di Stefano Bartezzaghi

Dal suo alto scranno l’arbitro sussurra nel microfono ai tennisti: «Please, play». L’invito diventa ancora più poetico, e opportunamente ambiguo, se a proporcelo è Fabrizio Gifuni, impegnato come è – da, si può dire, sempre – nell’agone amletico. Al principio della sua formazione teatrale ci sono due anni spesi all’Accademia con il maestro Orazio Costa in un lavoro esclusivo su Amleto (della sua classe ricorda sempre: «ognuno di noi alla fine lo sapeva tutto a memoria, in ognuno dei ruoli»). In anni più recenti, una scena capitale della “Cognizione del dolore” gli aveva fatto intuire il carattere amletico del protagonista gaddiano: così nel suo “L’ingegner Gadda va alla guerra” i diari e le invettive antimussoliniane di Gadda si interpolano con brani shakespeariani (del resto un Gadda ormai vecchio, intervistato in tv,
bofonchiava: «Rileggo solo lo Amleto»). Ora per Le vie dei Festival, Gifuni presenta un Concerto per Amleto con l’Orchestra sinfonica abruzzese diretta da Rino Marrone: brani del dramma alternati a movimenti delle due suite che Dmitrij Šostakovic scrisse per un Amleto teatrale (op. 32) e per uno cinematografico (op. 116). «Costa ci diceva: ognuno di voi si porterà per tutta la vita un fondo di Amleto e si imbatterà di continuo in personaggi attraversati da questa corrente. Io me ne sono accorto subito, il mio debutto teatrale è stato un Oreste nell’Elettra di Euripide, uno degli spettacoli migliori di Massimo Castri. Amleto discende anche da quei rami, come ci ha raccontato una volta per tutte Giorgio De Santillana, nel Mulino di Amleto ».
Lei non ha mai portato in scena un Amleto completo.
«Prima o poi potrebbe capitare. Dati gli anni meglio prima che poi».
Fra i tanti Amleti altrui, ce n’è uno più “suo”?
«Ne vedo tanti, non resisto alla curiosità di sapere come vengono sciolti certi nodi. Di recente mi è piaciuto quello di Benedict Cumberbatch, che però ho visto solo al cinema e non in teatro. A livello interpretativo mi aveva colpito molto l’Amleto di Richard Burton, e mi dispiace non riuscire più a far funzionare il lettore vhs per rivedere dopo anni la cassetta che mi ero procurato a Londra. Come spettacolo, invece, a Madrid mi ha convinto un Amleto con regia inglese e compagnia spagnola. Sottolineava un punto cruciale, spesso trascurato: la Corte, il Palazzo. Amleto è una tragedia regale, non un dramma borghese, domestico. E con tutte le battute goffe che Shakespeare pure gli ha riservato, Polonio non è la macchietta fessacchiotta delle messe in scena più superficiali: governa con sapienza la macchina del potere. Senza questo aspetto, Amleto non c’è più».
Lei con quali chiavi entra nell’Amleto, per il suo Concerto?
«Con quella del gioco, più di tutte le altre. Uso un frammento di Eraclito, uno dei più belli: “il Tempo è un bambino che gioca, spostando i pezzi sulla scacchiera: il Regno di un fanciullo”. Fin dal prologo del concerto accosto questo frammento alla battuta che Amleto pronuncia dopo aver incontrato gli attori: “The play is the thing/wherein I’ll catch the conscience of the King”. Play si può tradurre come teatro, recita, dramma ma anche alla lettera: “Il Gio- co è la cosa/ con cui prenderò la coscienza del Re”».
È il momento in cui il teatro entra nel teatro.
«Amleto è un intellettuale, ma anche un uomo di corte; è ludico e depresso, figlio, principe e guerriero. Shakespeare ha travasato in lui tutto il proprio amore per il teatro facendone un vero esperto. Amleto conosce le compagnie, i testi, i gusti del pubblico, diventa drammaturgo egli stesso per smascherare l’usurpatore. Dice: metti dieci versi dentro questa tragedia un po’ bolsa e vediamo cosa succede. Lo fa perché ha udito “che persone colpevoli sono state colpite così in fondo dal potere che c’è negli spettacoli da rivelare subito la colpa”. A riprova che certi magnifici giochi possono avere effetti serissimi sull’animo umano».
È così che risolve il suo proverbiale dilemma?
«Se non lo risolve quanto meno conquista, grazie al teatro, la “prova regina”. Gli attori sono gente seria, non cortigiani, dice a Polonio. Trattiamoli bene, sono loro che scriveranno il nostro epitaffio».
A proposito di lemmi e dilemmi, ci sono poi i giochi di parole, così difficili da tradurre… «In Shakespeare sono continui ma nell’Amleto sono sempre funzionali all’azione. Words/worms, parole/vermi e via dicendo».
Lo stesso Amleto recita una parte...
«È la famosa “antic disposition”, il comportamento buffonesco. Amleto, da bambino, ha avuto un modello: Yorick, il buffone che infinite volte lo aveva portato in spalla. L’unico che a corte potesse dire qualsiasi cosa, pronunciare l’impronunciabile, con una sorta di salvacondotto speciale. Del resto il gioco teatrale oscilla sempre fra la seduzione e il mostruoso. E anche il buffone se spezza certe regole del gioco rischia la testa».
Proprio sul mostruoso lei interrompeva il delirio gaddiano, nella sua pièce del 2010.
«Sì, parlavo improvvisamente con la mia voce, come se uscissi dalla parte. Però le parole erano di Shakespeare. “Ma secondo voi: non è mostruoso che un attore, solo in una finzione, come dire... in un sogno di passione, possa forzare la sua anima così al suo proprio concetto che per opera di quello tutto il suo volto impallidisce, lacrime negli occhi, smarrimento nell’aspetto, la voce che si rompe… e tutto questo per cosa? Per niente? Per Ecuba?”. Amleto è teatralmente magnifico perché costringe l’attore ad andare dentro e fuori dalla propria vita e da quella del personaggio ».
Un’oscillazione che ricorda nel gioco quella fra i diversi livelli di realtà e fra regole e libertà.
«Non c’è un altro motivo perché io faccia il lavoro che faccio se non quello di poter continuare a giocare con quella folle serietà che hanno i bambini. Se smette di giocare e pensa che il tempo del gioco – che è anche il tempo del mito, del rito, e dell’arte – sia secondario rispetto al tempo “serio” della produzione e del consumo, allora l’uomo è destinato alla nevrosi. Esiste solo un tempo, quello della nostra vita, e penso che le attività relegate nel cosiddetto “tempo libero” siano necessarie alla vita di un cittadino, alla sua formazione sociale, molto più di quanto non si pensi comunemente ».
Propone una specie di “play therapy” sociale?
«I greci la sapevano lunga non solo sulle tragedie, ma anche sui giochi: salva la città chi risolve un indovinello».
E chi riconosce nel ritratto mostruoso di un enigma la soluzione, che è l’uomo.
«Fino all’età scolare, i bambini hanno la disponibilità fisica per diventare qualsiasi cosa. Poi la facoltà di immaginarsi diversi non è più considerata una cosa seria. Ma questa è una perdita pazzesca per la società. Un bambino che “fa” la locomotiva o il cavallo diventa quella cosa. E sa che le regole sono un perimetro da tracciare assieme agli altri. Forse è il caso di ridirlo, qui e ora».