Repubblica 3.10.16
Tribune de Genève
L’eterna diffidenza tra Svizzera e Ue
La tensione legata alla concorrenza della manodopera straniera ha fatto aumentare il clima di sospetti tra Berna e Bruxelles
di Judith Mayencourt
NEL
Paese del negoziato, dei concordati e compromessi elaborati al cesello,
il dibattito europeo stride come una nota dissonante. A Bruxelles i
rapporti di forza sono troppo brutali, le soluzioni troppo definitive
per non urtare profondamente la cultura politica elvetica. Secondo la
convinzione di molti, l’Europa non è solubile nella nostra democrazia
forgiata al fuoco dei diritti popolari: una tesi che ora sembra trovare
conferma nella crisi sulla libera circolazione delle persone, in cui la
volontà popolare espressa nelle urne si scontra con le regole non
negoziabili dell’Ue.
Non è peraltro una scoperta dell’ultima ora.
Se fin dall’inizio degli anni ‘90 la popolazione e i cantoni svizzeri
hanno respinto l’adesione allo Spazio economico europeo, è stato in gran
parte per sottrarsi a un tipo di governance che sentivano come
profondamente estraneo. Ma il rifiuto di un progetto non può mai essere
la fine della storia. I negoziati per la coabitazione con un’Unione
europea in piena espansione e l’accesso al suo libero mercato si sono
protratti per una decina d’anni, non senza forti contrasti. E di volta
in volta, gli accordi sono stati ratificati dai cittadini, dopo
difficili dibattiti popolari.
Una volta consolidata nelle urne —
come pochi dei nostri vicini sono riusciti a fare — la questione europea
è sembrata per lungo tempo appianata. Tanto più che agli accordi di
cooperazione economica e politica con l’Ue è seguito un impetuoso
ritorno della crescita. La via bilaterale fa bene alla nostra economia, e
quindi a noi: questa formula è diventata il mantra della maggior parte
dei partiti, tranne l’Udc di Christoph Blocher. Ma dato che una parte
della popolazione si è trovata a confronto con la concorrenza della
nuova manodopera straniera, l’europeismo oltranzista del discorso
ufficiale ha contribuito non poco all’ascesa di un potente schieramento
nazionalista e conservatore. Così la questione europea, lungi
dall’essere risolta, si è imposta nell’agenda elvetica come un problema.
Un sassolino nella nostra scarpa.
In questo contesto di crescenti
tensioni con una parte della popolazione, la rottura era per così dire
programmata. Ed è intervenuta due anni e mezzo fa, in seguito a
un’iniziativa popolare (referendum) dell’Udc che incitava a riprendere
in mano la nostra politica migratoria, con un progetto che secondo i
suoi ideatori sarebbe stato compatibile con la libera circolazione delle
persone, e quindi coi nostri accordi con l’Ue. Ma nonostante una
campagna surriscaldata, le conseguenze del nuovo articolo 121/a della
Costituzione non sono apparse chiaramente all’indomani di quel 9
febbraio 2014. L’Unione Europea ha fatto sapere che la linea rossa era
ormai superata. Bruxelles non poteva accettare il contingentamento dei
lavoratori europei; e affinché il messaggio fosse chiaro, ha escluso gli
scienziati svizzeri dalla partecipazione ai programmi di ricerca
europei.
La deflagrazione politica è stata enorme, commisurata
allo shock emotivo suscitato dalla violenza della risposta europea. Il
governo ha fatto sforzi notevoli per rimediare, e i ricercatori sono
riusciti a riconquistare un piccolo strapuntino nel programma Horizon
2020; ma non è stato possibile ottenere concessioni per ammorbidire il
principio della libera circolazione delle persone. Davanti a
quest’impasse, il parlamento ha finito per arrendersi. La legge varata
per regolare l’immigrazione è una tigre di carta, senza zanne né
grinfie. Non si potrà attuare nessuna misura di controllo della
manodopera senza l’accordo degli europei — il che equivale ad
accantonare gli obiettivi fissati dal responso delle urne. Ma
l’alternativa era assumersi il rischio di una rottura con l’Ue, con la
conseguente rinuncia al pieno accesso al mercato europeo: una
prospettiva ritenuta troppo pericolosa per essere affrontata. Un
difficile esercizio di Realpolitik, che si è dovuto fare nel dispregio
della volontà popolare.
Venticinque anni dopo il no allo Spazio
Economico Europeo, le previsioni degli euroscettici hanno trovato una
magistrale conferma: l’Europa si costruisce dall’alto, con piglio
decisionista, a colpi di grandi principi. Ed è incompatibile con i
nostri diritti popolari. La tentazione della rottura è ancora rafforzata
da Brexit, che suona come una conferma delle percezioni di larga parte
della popolazione. E mentre Berna abbassa la testa, la rivolta sorge dai
Cantoni — in particolare dal Ticino, al confine con l’Italia, dove è
più forte la ripulsa verso Bruxelles. Ora la popolazione ha inserito
nella sua Costituzione il principio della preferenza nazionale, a
dispetto e scorno dei vicini italiani e dell’Unione europea. E certo
questa è solo una prima scaramuccia.
Se Berna tenta tuttora di
ristabilire la pax europea, il Paese è sempre più coinvolto in una lenta
guerriglia istituzionale con l’Ue. E la prospettiva di un accordo
quadro in grado di rendere durature le regole del gioco sembra ormai un
sogno irraggiungibile per i diplomatici. I quali al momento non
rischiano la cassa integrazione.
L’autrice è una giornalista della Tribune de Genève Traduzione di Elisabetta Horvat