Repubblica 3.10.16
L’Europa respinga gli antichi fantasmi
I
governanti dei Paesi dell’Est credono possibile rispondere alla sfida
planetaria della migrazione ricostruendo una nuova cortina di ferro
di Angelo Bolaffi
SOLO
una macabra farsa: questo era il referendum ungherese contro gli
stranieri e contro “i diktat” di Bruxelles fortemente voluto dal premier
Viktor Orbán. E tale si è rivelato. Il popolo cui amano fare appello
piccoli e grandi dittatori questa volta ha preferito tacere.
FORSE
ha fiutato l’inganno e ha evitato di acclamare l’uomo forte di
Budapest. Ma il danno resta per l’immagine di quel Paese e per il
destino futuro dell’Europa. La grande speranza si è rivelata una fugace
illusione: avevamo creduto che la caduta del Muro di Berlino se non
proprio la “fine della storia” avesse, almeno in Europa, segnato la fine
dell’età dei muri e dei reticolati di filo spinato. E invece sta
accadendo esattamente il contrario. Quella che una volta tra ammirazione
e sospetto veniva chiamata Mitteleuropa sembra tornata preda di antichi
fantasmi e di pulsioni identitarie nell’illusione di trovare risposte
alle sfide del mondo globale in una inattuale autarchia economica e
spirituale.
I governanti dei Paesi dell’Est Europa capeggiati
proprio da Orbán credono possibile dare risposta alla sfida planetaria
rappresentata dalla migrazione di popolazioni in fuga dalle guerre del
Medio Oriente, o dalla miseria del continente africano, ricostruendo
quella che, per più di mezzo secolo, era stata causa delle loro
sofferenze: una nuova cortina di ferro. Un passo dopo l’altro, una crisi
dopo l’altra, dunque, l’Europa procede spedita verso la sua disunione
politica e culturale: come capitò ai sonnambuli che scivolarono senza
neppure averne consapevolezza nella Prima guerra mondiale, gli europei
potrebbero uno di questi giorni scoprire di aver superato il punto di
non ritorno verso uno storico fallimento. Un fallimento che appare tanto
più paradossale in quanto i governi dei singoli Paesi cercano risposte
nazionali, o peggio ancora nazionaliste, a sfide che essi stessi
definiscono di natura globale e condannano in tal modo i propri Paesi e
l’intera Europa ad un declino irreversibile.
Oggi, come accadde
negli anni ’20-’30 del Novecento, assistiamo infatti allo scontro di
“due Europe”: quella che crede che sia possibile governare le
metamorfosi in atto nel segno della giustizia sociale, della libertà e
dell’universalismo dei diritti. L’altra che, invece, fa politica con la
paura e l’odio e insinua la velenosa convinzione che sia possibile
impedire l’irruzione del mutamento innalzando Muri e chiudendo i confini
nazionali.
Sappiamo come andò a finire allora. Non è del resto un
caso che, da buon conoscitore della storia europea, Helmut Kohl nel
discorso tenuto nell’ottobre del 1993 dinnanzi all’Assemblea nazionale
francese avesse messo in guardia gli europei ricordando loro che «gli
spiriti maligni non sono stati banditi per sempre dall’Europa» e
ammonendo che «ad ogni generazione si pone di nuovo il compito di
impedire il loro ritorno, di superare i pregiudizi e di far cadere i
sospetti».
La previsione fatta dal Cancelliere dell’unificazione
tedesca appare drammaticamente confermata da quanto accade oggi in tutto
il Vecchio Continente, dalla Brexit all’anarchia spagnola. E
soprattutto dall’enorme potenziale di consenso che movimenti xenofobi e
populisti riescono a catalizzare anche in Paesi di antica civiltà
giuridica e storica tradizione di universalismo politico com’è il caso
della Francia.
La verità è che in quel Paese come in molti altri,
Italia compresa, si contrappongono, provocando una crescente
conflittualità politica e spirituale che supera la classica
contrapposizione tra destra e sinistra, due “visioni del mondo”. Una è
convinta non solo della possibilità di governare la dimensione di questo
esodo carico di tragedie, ma anche che questo fenomeno rappresenti un
obbligo morale e al tempo stesso una opportunità per il futuro che
altrimenti la demografia condannerebbe a un declino irreversibile.
L’altra è una “visione del mondo” dominata da dubbi e paure, da
pregiudizi ma anche da timori diffusi tra le parti più deboli,
socialmente e culturalmente, delle società europee sulla possibilità di
riconquistare o quanto meno di difendere determinati livelli di
sicurezza sociale. Come pure i valori tradizionali che guidano il
funzionamento della vita quotidiana, minacciati dalla sensazione di non
essere più padroni del proprio destino di cui è metafora la crisi della
sovranità sui confini nazionali.
Oggi è molto difficile formulare
una ragionevole previsione sui destini d’Europa o addirittura di quello
che abbiamo imparato a indicare, dopo la fine della Seconda guerra
mondiale, come l’Occidente. Non sappiamo se le istituzioni dell’Unione
europea reggeranno l’urto del terribile ciclo elettorale che vedrà
coinvolti nei prossimi dodici mesi — nel settembre del 2017 si
svolgeranno le elezioni in Germania — praticamente tutti i principali
Paesi del Vecchio continente. Né quale America uscirà dal confronto tra
il feroce populismo di Trump e l’occidentalismo tradizionale ma dallo
scarso carisma di Hillary Clinton.
Certo tutto sarebbe diverso se
l’Europa fosse in grado di esprimere una politica, se sapesse e potesse
parlare con una sola voce. Se: ma non è così. Le democrazie europee
strette in una implacabile tenaglia, da un lato le questioni globali e
dall’altro la necessità di conquistare legittimità politica parlando un
linguaggio locale, tra dover elaborare un “nuovo racconto” che tenga
conto delle mutate condizioni geo-politiche e geo-economiche del
pianeta-mondo dell’età globale e dover dare ascolto alle attese spesso
corporative di cittadini protagonisti di cicli elettorali sempre più
brevi, rischiano il corto circuito. Se da qualche parte in Europa c’è
qualche leader capace di impedire che essa faccia bancarotta una seconda
volta nel giro di un secolo, è questo il momento che si faccia sentire.
Hic Rhodus, hic salta.