lunedì 31 ottobre 2016

Repubblica 31.10.16
Comey, il nemico a capo dell’Fbi che dà la caccia ai coniugi Clinton
di Federico Rampini

NEW YORK. Repubblicano, allievo di Rudolph Giuliani e più volte “persecutore” dei Clinton. È facile scivolare nella dietrologia su James Comey: l’amico del giaguaro. Il potentissimo capo dell’Fbi è nell’occhio del ciclone. Ha disobbedito al governo da cui dipende, e dal quale fu nominato. Riaprendo un’inchiesta (già chiusa a luglio) su Hillary Clinton a pochi giorni dal voto ha commesso un atto che la candidata definisce «senza precedenti, profondamente inquietante». Anche Loretta Lynch, la ministra della Giustizia da cui l’Fbi dipende — salvo l’autonomia nella conduzione delle indagini — è “furiosa” contro Comey. Accusato dalle più alte sfere dell’Amministrazione Obama di prevaricazione, strappo alle regole, infrazione di un protocollo che impone all’Fbi un dovere di riservatezza e di discrezione in prossimità delle scadenze elettorali. Per causa sua l’America chiude questa pazza campagna elettorale sfiorando una crisi istituzionale ai massimi livelli.
Dunque, chi è l’uomo che improvvisamente i democratici sospettano di fare il gioco del nemico? Quali motivazioni spingono il regista di questo clamoroso colpo di scena che può destabilizzare le previsioni sull’8 novembre? Comey non è un superpoliziotto di formazione, bensì un magistrato. Si è fatto le ossa da giovane nell’antimafia con l’inchiesta sul clan newyorchese dei Gambino, uno dei suoi primi incarichi. Per due anni lavora alle dipendenze di Rudolph Giuliani, oggi uno dei maggiori sostenitori di Donald Trump: Comey lo ebbe come capo all’epoca della Mafia Commission dal 1987 al 1989, quando Giuliani dirigeva la Procura nel Southern District di New York. Oggi 55enne, Comey è sempre stato repubblicano, ha versato fondi per John McCain e Mitt Romney, salvo dichiararsi “indipendente” solo di recente, dopo la nomina al vertice dell’Fbi da parte di un presidente democratico.
Il suo primo incarico di rilevo politico nazionale arriva nel 1996, e subito “incrocia” le vicende dei Clinton in modo ostile: è lui uno dei consulenti giuridici per la commissione d’inchiesta del Senato (a maggioranza repubblicana) che cerca d’incastrare i coniugi Clinton sul presunto scandalo Whitewater. La pista si rivela una bufala, ma presto i repubblicani troveranno un’alternativa più fruttuosa grazie a Monica Lewinsky. È ancora Comey, dopo avere ereditato la procura del Southern District of New York che era stata di Giuliani, a condurre un’altra indagine contro Bill Clinton, nel 2002, sul controverso perdono presidenziale al finanziere Marc Rich. Anche quella finisce nel nulla.
George W. Bush lo nomina viceministro della Giustizia, incarico che ricopre dal 2003 al 2005. Sono anni delicati perché segnati dalla massima espansione dello spionaggio anti- terrorismo post-11 settembre, dai poteri sempre più vasti della Homeland Security al gigantismo della Nsa, dalle polemiche su Abu Ghraib a quelle su Guantanamo, con un ruolo di punta del dicastero della Giustizia per “legittimare” le azioni del governo. È in quel periodo che Comey si conquista le credenziali di “colomba” che lo sdoganano fra i democratici: in un caso importante lui si rifiuta di autorizzare i programmi di spionaggio elettronico della Nsa. Quando lascia l’amministrazione Bush non lo fa per dissensi politici: lo attende un incarico ben più remunerativo nel complesso militar-industriale, diventa vicepresidente e rappresentante legale della Lockheed Martin, il numero uno nelle forniture di armi al Pentagono. Obama lo nomina alla guida dell’Fbi nel maggio 2013. In quel ruolo non è la prima volta che lui “rema contro” l’esecutivo che lo ha prescelto. Dopo gli scontri razziali di Ferguson e la nascita del movimento BlackLivesMatter lui prende le distanze dallo stesso Obama, sostiene che le critiche legano le mani alla polizia e la rendono meno efficace nella prevenzione del crimine.
La sua decisione di riaprire l’email-gate è tanto più irrituale, perché 48 ore dopo l’annuncio si è scoperto che l’Fbi non ha neppure ottenuto un mandato giudiziario per esaminare quelle email (contenute nel computer dell’ex marito della consigliera di Hillary). Dunque lui stesso non sa cosa c’è dentro, eppure ha creato un caos politico inaudito. La spiegazione più razionale? Comey si è convinto che anche se vince la Clinton i repubblicani conserveranno la maggioranza alla Camera e da lì lanceranno inchieste parlamentari a non finire. Non vuole finirci lui, su quella graticola.