domenica 2 ottobre 2016

Repubblica 2.10.16
 Achille Bonito Oliva
“Non sono un custode dell’arte semmai un angelo sterminatore”
colloquio con Antonio Gnoli

Soltanto un critico imprevedibile come Achille Bonito Oliva poteva uscirsene negli anni Settanta con un elogio del tradimento. Un sentimento innalzato ai tormenti, alle elucubrazioni e alle astuzie di uno Iago prestato al mondo dell’arte. Come il suo antico omonimo, anche il nostro Achille è abitato da quella che i greci chiamavano metis, che noi potremmo tradurre con spigliatezza mentale, una sagacia che fa assomigliare l’innata pulsione alla provocazione a un gesto artistico gratuito, dirompente e in un certo senso inutile. Non è stato questo il destino dell’arte contemporanea? Spogliata dei suoi averi estetici cosa le resta? Posando nudo, come fosse Paolina Bonaparte, il meno che si possa dire di Achille è che l’esibizionismo sia stata l’intima parte del suo situazionismo. Avvolto dalla bianca nuvola del suo toscano, con un bicchiere di vodka che oscilla pericolosamente tra la mano e il tavolino, accolgo i suoi pensieri spettinati. Li ostenta con infantile dismisura, consapevole che l’infanzia sia il vero territorio di caccia per questo bambino di 77 anni: capriccioso, assillante, egocentrico che ha fatto dell’arte la sua vita e della critica la sua demolizione. «Ho avuto successo fin da piccolo», chiosa nell’ironica spossatezza di una sera che si annuncia particolarmente lunga.
Non riesco a immaginarti bambino.
«Ero il primo di nove figli. Non mi sono mai curato dei miei fratelli. Non mi sono mai sentito responsabile. Non ho un’idea adulta di me. Alla domanda cosa vuoi fare da grande, fin da piccolo rispondevo: voglio fare il bambino ».
Le tue radici sono meridionali.
«Sono nato a Caggiano. Mio padre proveniva dall’aristocrazia terriera. Tra gli avi ci fu anche un vescovo che venne al seguito di Scanderbeg. Dopo che l’eroe albanese sbaragliò i turchi, al mio avo furono donate terre nel salernitano. Mia madre discendeva da Celestino V, quello del gran rifiuto».
E tutto questo confluì su Caggiano?
«Ci vivevano i miei: prima di sposarsi si fronteggiavano nei rispettivi palazzi. Ho fatto le scuole a Napoli nel collegio dei Barnabiti. Poi il liceo. Infine una laurea in legge. A 22 anni ero già leggendario».
E poi?
«Poi compresi che non avrei mai seguito le orme di mio padre notaio. Me ne andai di casa. Mi iscrissi a lettere e filosofia. In quei primissimi anni Sessanta mi misi a frequentare la libreria Guida a Napoli. Ci passavano tutti. Da Kerouac a Ginsberg. Venivano anche personaggi come Roland Barthes e Sanguineti. Ero così imploso di letteratura che intervenivo nei dibattiti con discorsi oscuri che scatenavano l’ilarità e la simpatia dei presenti».
In fondo sei sempre stato un attore.
«Rappresento me stesso».
Sei mai finito da uno psicoanalista?
«Scherzi? Pagare per parlare sarebbe per me un controsenso ».
Hai cominciato con la parola visiva.
«Più esattamente scrivevo poesie visive. Un intreccio tra parola e immagine. Suscitai la curiosità di Nanni Balestrini».
Eri già allora uno sperimentale.
«Era il modo obbligato per uscire dalla palude. Decisi perciò di trasferirmi a Roma».
Con l’alloro di poeta?
«Mi avrebbero accolto a pernacchie. No, la verità è che avevo in quegli anni messo insieme un gruppo di architetti e artisti che voleva svecchiare il gusto crociano per cui la pittura era solo quella figurativa e la letteratura finiva con l’Ottocento. Venne Argan per una conferenza e fu colpito dai miei interessi».
Perciò quando arrivasti a Roma bussasti alla sua porta?
«Bussai e mi fu aperto. Argan mi segnalò a Filiberto Menna. E dopo un po’ Filiberto mi fece entrare all’università di Salerno. Era il 1971. Scelsi di svolgere un corso sul manierismo. Dove è già possibile scorgere la prima traccia del mio libro più importante:
L’ideologia del traditore ».
La prima mostra che hai curato?
«Ero ancora a Napoli. Topazia Alliata mi aiutò ad allestire la mostra di Renato Mambor e Pino Pascali. Era il 1966. Fu il mio debutto. Poi, come ti dicevo, nel 1968 mi trasferii a Roma. Cominciai a frequentare Argan, il quale mi presentò a Palma Bucarelli».
La regina del mondo dell’arte.
«Aveva il senso del ruolo e riuscì quasi sempre a imporre le sue scelte. Detestava Guttuso. Riuscì a impedirgli l’ingresso alla Galleria d’Arte Moderna di cui era la direttrice e costrinse anche Argan, del quale era l’amante, a non parlarne».
Una vera zarina.
«Quando Roma poteva permettersi dei sovrani della cultura».
Chi frequentavi allora?
«Una quantità mostruosa di persone. Sarebbe inutile l’elenco. Le sere in galleria, poi al bar Rosati, cena rapida da Buccone, e poi a via dell’Oca dove Plinio De Martiis aprì una specie di bar. Era un ciclo continuo».
Animale notturno?
«Animale tout court».
Pensavi al potere della critica?
«Il potere era nelle mani di chi lo aveva conquistato ».
Alludi ai dioscuri Argan e Brandi?
«Erano il vertice della critica».
Si mormorò che occuparono le istituzioni.
«Morto Longhi, Zeri ancora silente e Briganti libero dai legami ideologici, restavano loro due. Mica due scalzacani. Una volta Chastel e Gombrich mi dissero che Argan era stato un maestro negli studi sull’arte moderna. Quanto a Brandi era un raffinato teorico ma anche con spiccate intuizioni pratiche. Fu lui a far nascere l’Istituto del Restauro che tutto il mondo ci invidia ».
Il grande direttore di quell’istituto fu Giuliano Urbani.
«Un uomo che mi ha sempre fatto una grande simpatia. Parliamo di un mondo che è scomparso».
È doloroso?
«Ma sai è fatale, poi ne misuri le conseguenze».
A cosa pensi?
«Argan a un certo punto divenne sindaco di Roma e la sua eredità di storico e critico passò agli “arganauti”, buoni studiosi, ma senza essere dei leader. Crispolti finì ad occuparsi di Guttuso e Calvesi delle sculture di Gina Lollobrigida».
Era la seconda metà degli anni Settanta tu che facevi?
«Nel 1975 pubblicai L’ideologia del traditore ».
Chi tradiva chi?
«Era un modo per sottolineare la lateralità dell’artista ».
Cosa vuoi dire?
«Fino al Rinascimento l’artista si predisponeva frontalmente rispetto ai valori, con il Manierismo diventa una figura laterale. È come se guardasse la scena del mondo senza la necessità di intervenire. Traditore è chi non accetta il mondo che osserva, vorrebbe modificarlo. Ma alla fine non fa niente, non agisce. Resta nella sua riserva mentale».
E questa roba ti è servita per progettare la Transavanguardia?
«C’è una continuità. La Transavanguardia è stata il superamento edipico delle avanguardie che hanno sempre avuto il bisogno di uccidere il padre».
Tu al massimo avresti soppresso lo zio.
«No, la violenza è il linguaggio del Novecento. Diceva Argan che il Novecento era passato dagli oggetti ai concetti».
Lo pensi anche tu?
«Negli anni Settanta l’oggetto artistico scompare e prevalgono le forme di pensiero. La Transavanguardia propone il recupero dell’oggetto e del soggetto artistico ».
Con un occhio al passato?
«Non solo un occhio. L’attenzione fu alla memoria storica di un Paese come il nostro, memoria che non ha eguali al mondo, e che contribuì in modo determinante al successo internazionale della Transavanguardia ».
Come hai vissuto quel successo?
«I meccanismi mediatici diedero enorme visibilità al gruppo e al critico che lo aveva teorizzato. Il successo l’ho vissuto con naturalezza».
A un certo punto hai proclamato: “La Transavanguardia c’est moi”. Te la sei intestata in un momento di delirio?
«No, no. Diciamo un richiamo ironico a Flaubert».
I tuoi artisti come hanno reagito? E a proposito come li hai scelti?
«Li ho scelti sulla base delle loro spiccate individualità. Hanno inventato un certo linguaggio pittorico. Per me invece è stata una sintonia con il nostro e il loro tempo. Volevo capovolgere l’idea che l’artista fosse un genio incompreso».
Vuoi ricordare i loro nomi?
«Francesco Clemente, Sandro Chia, Maurizio Cucchi, Mimmo Paladino, Nicola De Maria. Furono loro gli artefici del movimento. Io ho solo creato una famiglia di artisti che non sono parenti. Erano gli anni in cui dominava l’Io assembleare, l’ideologia del noi. La Transavanguardia mostrò attenzione all’Io dei singoli».
Sei stato il suo angelo custode.
«Non mi sento custode di nulla. Semmai sono un angelo sterminatore. In una società di massa non esistono artisti di massa. È gente solitaria, nevrotica, sublime. Che va scoperta o smascherata, sostenuta o affondata ».
È la funzione che ti sei dato in quanto critico?
«Nonostante tutto, il critico svolge una funzione di responsabilità. Non ho detto rispettabilità. Però il giudizio gli appartiene se no sarebbe solo un voyeur».
Tu non sarai un voyeur, ma esibizionista sì.
«Mi mostro, lo trovo istruttivo».
Come i tuoi nudi apparsi su “Frigidaire”?
«Era un gesto autoreferenziale che dava corpo al critico, fino a quel momento considerato un servo di scena, eliminando così ogni concettosità».
Insomma un gioco?
«Ho sempre avuto il senso ludico delle cose, a conferma potrei dire della mia immaturità, che si conserva ancora adesso. Anche in questo momento non riesco a pensare a cosa potrei fare da grande».
Forse non è così importante.
«Appunto, se cominciassi ora a prendermi sul serio cosa diresti?»
Saresti una sorpresa.
«Voglio sorprendermi altrove».
Non lo chiederei a un intellettuale impegnato: cosa pensi di questo momento storico?
«Che la storia si sia rimessa in moto è un fatto».
Verso quale direzione?
«Lo chiedi a me? Quello che avverto è una sostanziale inutilità: direzione? Cambio di marcia? Inversione? La storia non è un’autostrada».
Cos’è?
«Una marcia ottusa. Trump che concorre alla presidenza è la dimostrazione che la storia si ripete come parodia. Lui è la parodia dell’Opera
da tre soldi,
di un capitalismo che in America ha ottenuto i suoi maggiori trionfi. Sento un disprezzo per quello che accade e che va contro l’intelligenza politica. Oggi prevale l’egoismo territoriale. E l’intellettuale, ammesso che esista ancora, può solo lavorare in termini resistenziali contro l’omologazione».
Ancora credi a questa storia dell’omologazione?
«Forse vorrei solo suggerire un alibi, una via di uscita, consapevole che non ci sono gesti liberatori o sacrificali. Sono coraggiosamente spaventato».
Cosa ti fa paura?
«Ho quella strana onnipotenza infantile per cui non potrei scappare davanti a niente. Del resto rischierei di spettinarmi. Cogli l’aspetto estetico? C’è poi la paura della morte. Ho scritto: “Vivo, al massimo muoio”. Quando morì mia zia mi ricordai di una frase di Freud: la morte produce ammirazione».
Cosa intendeva secondo te?
«Chi muore fa uno sforzo pazzesco per trapassare in un’altra dimensione. Ma poi subentra una forma di estraneità».
Spiegati meglio.
«Se dovessi pensare alla mia morte mi sentirei ostaggio dei viventi. La prima cosa che scrissi a 14 anni fu: “Il mio funerale”. Descrivevo la discesa della piccola bara per le scale e il mio corpo che si spostava da un lato all’altro, accompagnandone l’oscillazione. Da soggetto ero diventato un oggetto».
Sei un uomo dalla frase breve.
«Sono un brevilineo. Del resto, oggi si producono più telegrammi che testi».
Anche in arte?
«Anche, certo».
Come vedi l’arte di questi anni?
«Come una catena di sant’Antonio che sviluppa valore: l’artista crea, il critico riflette, il gallerista espone, il collezionista gode».E il pubblico?
«Degusta. Da quando il popolo è diventato pubblico si è affermata l’impronta spettacolare».
Chi l’ha intuito per primo è forse stata la Pop Art.
«La Pop Art è il risultato della società dei consumi americana. Impone un linguaggio che dà classicità alla società di massa americana. E Warhol è stato il suo Raffaello».
Oggi dov’è il baricentro dell’arte?
«Nei primi del secolo scorso era Parigi; nella seconda metà del Novecento fu New York;
oggi è ovunque».
Ha contribuito Internet?
«Sicuramente. Internet ha sviluppato una indifferenza estetica rendendo i contenuti dell’arte interscambiabili. Il vero valore dell’opera è la sua circolazione ».
Ti senti tagliato fuori?
«Sono l’ultimo punk che fa ancora quello che vuole».
Un punk spesso litigioso?
«Preferisco la parola conflittuale».
Sei provocatorio?
«Di fatto più che nelle intenzioni».
Provocatorio fino alla sgradevolezza?
«Sgradevole no, ma inopportuno. A volte il mio gioco va oltre misura».
Sei avaro?
«No, sono contro la solitudine dell’accumulo».
Hai mai avuto sensi di colpa?
«No, essendo un movimentista dimentico spesso ciò che dico e faccio. Nella mia mobilità so di essere conflittuale e perfino offensivo, ma anche capace di riportare il rapporto fuori dal conflitto».
I tuoi maestri?
«Due su tutti: Totò, il Socrate dalla mascella deragliata e Groucho Marx. Sono stato marxista e totoista ».