Repubblica 2.10.16
Io sono stato straniero
estratto del
discorso che Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose,
pronuncerà domani in Senato in occasione della Giornata nazionale per la
memoria delle vittime dell’immigrazione
di Enzo Bianchi
priore di Bose
IL
TITOLO assegnato a questo mio intervento riecheggia una parola
indirizzata a più riprese nella Bibbia al popolo di Israele: “Ricorda
che sei stato straniero nel paese di Egitto”, oppure: “Tu agirai così
perché anche tu sei stato straniero!”. Parole che sono un invito a
sentirsi stranieri e assumere la responsabilità verso gli stranieri che
giungono a noi nella loro irriducibile e di primo acchito insondabile
diversità. Per questo risuona il comandamento: “Amate il gher (lo
straniero) perché foste gherim, stranieri!” (Dt 10,19; 24,17; Esodo
22,20; 23,9; Lev 19,34). Ecco il paradigma: ciascuno di noi è straniero
rispetto ad altri e proprio per questo può comportarsi rispetto allo
straniero come lui vorrebbe che altri si comportassero nei suoi
confronti. Ma vorrei affrontare questo tema usando come chiave
interpretativa il testo attribuito a Shakespeare che ci invita a “vedere
gli stranieri”. Rievocando la minaccia di espulsione dal paese di
persone “diverse” per religione e nazionalità, il Bardo invita a
interrogarsi sui motivi di questa migrazione, poi esorta a immedesimarsi
nei fuggiaschi per trarne le conseguenze a livello di comportamento
etico. “Vedere gli stranieri” può allora declinarsi in diverse modalità —
vederli da lontano, vedere se stessi, vederli da vicino, vederli come
concittadini — e sfociare in una dimensione inattesa: gli stranieri come
dono.
1. Vedere gli stranieri da lontano: la lungimiranza.
Di
fronte al fenomeno migratorio — antico quanto il mondo — e alla
connotazione assunta in Italia appare fuorviante definirlo “emergenza”.
Sarebbe più sensato considerarlo un’inevitabile conseguenza di fattori
legati ai nostri comportamenti, a cominciare da guerre, sete di potere e
sfruttamento iniquo delle risorse del pianeta. Da sempre è la fame che
va verso il pane, non viceversa, e non ci sono né muri né mari capaci di
fermare chi è talmente disperato da considerare un viaggio senza
speranza preferibile alla certezza di una morte atroce nella propria
terra. O pensiamo che se uno avesse un’aspettativa di sopravvivenza “a
casa sua”, metterebbe a repentaglio la vita in un’avventura bestiale?
“Vedere gli stranieri” da lontano significa lungimiranza sulle cause che
li muovono. Significa capacità di pensare in grande per agire
“politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire poteri e
persone che prosperano sulla morte degli altri, dai trafficanti di armi a
quelli di esseri umani.
2. Vedere se stessi negli stranieri: immedesimazione e identità.
Non
dovrebbe essere difficile per noi applicare questo paradigma, la nostra
“stranierità” è ancor oggi riscontrabile e vissuta. Lo straniero è lo
specchio della stranierità che ci abita, è la faccia nascosta della
nostra identità. Riconoscendo la stranierità in noi, possiamo compiere
un cammino che non rimuove, non teme, non demonizza il forestiero.
Scrive Julia Kristeva: “Lo straniero ci abita: è la faccia oscura della
nostra identità. Riconoscendo lo straniero in noi, possiamo non
detestarlo in lui”. E Edmond Jabès: “Lo straniero ti permette di essere
te stesso, facendo di te uno straniero”. Questo atteggiamento eviterebbe
il rischio di assolutizzare la propria identità, con arroccamenti
difensivi dei valori. L’identità, sia personale che comunitaria, si
costruisce attraverso l’incontro e la relazione con gli altri, diversi e
stranieri. L’identità non è statica ma un divenire, non è monolitica ma
plurale. I risorgenti localismi generano spinte xenofobe e razziste,
tendono all’esclusione dell’altro. Lo straniero invece è portatore di
una relazione che riguarda il nostro essere più profondo e ci fa
cogliere il significato del monito biblico: “Ama lo straniero perché tu
sei stato straniero” e continui ad esserlo rispetto a un orizzonte che
non hai ancora attraversato.
3. Vedere gli stranieri da vicino: vincere le paure.
Giunto
da lontano, lo straniero è radicalmente altro. È altro da me: era
lontano e ora mi è vicino. Ora compete a me farmi suo prossimo,
avvicinarmi a lui. Ma proprio in questo incontro emerge la paura. Anzi,
due paure: la mia paura e quella dello straniero. Innanzitutto la sua
paura, quella di chi è venuto in un mondo a lui estraneo, dove non è di
casa e non ha casa. La mia paura, invece, è quella di ritrovarmi di
fronte a uno sconosciuto entrato nella “mia” terra. Due paure a
confronto. La paura va superata, ma per farlo è necessario affrontarla e
non rimuoverla. Lasciata nelle mani degli imprenditori della paura,
essa lievita fino a paralizzare ogni azione e a sprigionare mostri. Se
la si nega, si rischia di idealizzare la differenza dello straniero. La
paura va razionalizzata, assunta, così da trasformarla in stimolo e in
ingrediente per soluzioni.
4. Vedere gli stranieri come concittadini.
La
razionalizzazione delle paure richiede che ci si interroghi su quali
modelli di incontro tra stranieri e italiani attuare. Potremmo
identificare quattro modelli: assimilazione, inserimento, integrazione,
cittadinanza. Con una domanda di fondo: quando e fino a quando una
persona è considerata straniera? È straniero l’immigrato giunto come
tale, anche se infante, e lo rimane per tutta la vita? La
con-cittadinanza è lo spazio comune in cui diviene impossibile
continuare a parlare di “noi” e “loro” e in cui la logica
dell’uguaglianza attiva diviene abito mentale e culturale dell’insieme
della società.
5. Vedere gli stranieri per quello che portano in dono: la relazione.
Ogni
essere umano è razionale e relazionale, ed è grazie alle relazioni che
può costruire se stesso e diventare un soggetto. Ma la relazione con gli
altri non va da sé: si tratta di assumere comportamenti che rendano
possibile l’incontro nel riconoscimento della dignità dell’altro. Il
cammino è esigente e faticoso, ma senza l’altro non è possibile avanzare
nella propria umanizzazione. Riconoscere l’altro nella sua differenza
significa ammetterlo e, quindi, accettarlo. Il dialogo non può avere
come fine l’uniformità, ma il fare cammino insieme, il ricercare un
“con-senso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. Nel
dialogo si modificano i pregiudizi che abbiamo degli altri e di noi
stessi. Senza affermare e vivere in primo luogo la fraternità, anche la
libertà e l’uguaglianza sono fragili. Vedere gli stranieri come compagni
di umanità restituisce pienezza al meglio di noi stessi e della
società.
Conclusione.
In uno splendido libro sui lavoratori
immigrati in Europa uscito negli anni ‘70, John Berger afferma: “Per
mostrare la vita dei lavoratori ci occorrevano soprattutto le
fotografie”. La fotografia è un mezzo potente per metterci di fronte al
dolore degli altri. Ricordo una foto del 2009 su Paris Match: un
immigrato respinto in Libia, inginocchiato, afferra implorante con le
mani nude la mano coperta da un guanto azzurro di chi lo sta riportando
là da dove lui voleva andarsene, foto che contiene più verità di ogni
ragionamento. Ecco la verità che non andrebbe mai dimenticata, ecco il
momento applicativo di una politica di respingimento colto nella
fisicità del “no” a un disperato. Le affermazioni di principio devono
confrontarsi con un volto preciso, entrare in un faccia a faccia con una
persona che chiede asilo, futuro, accoglienza. Dietro alle decisioni
sull’immigrazione vi è la sfida che il corpo del povero porta con sé: e
la nostra risposta non può essere un piede che schiaccia la mano appesa a
un barcone. La fotografia coglie l’elementare verità che sta dietro a
ogni decisione: che interferirà con il corpo di un uomo, con il suo
volto, dunque con la sua anima, la sua storia, la sua famiglia. Fino al
punto di aiutare la vita o di farsi complice della morte.
Scrive
Edmond Jabès: “Avvicìnati, dice lo straniero. A due passi da me sei
ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che sei tu e non per quello
che io sono”. Stiamo parlando di vedere gli stranieri, ma l’unica cosa
seria è incontrarli nel faccia a faccia, ascoltare direttamente le loro
storie, vederli nell’occhio contro occhio.
Anticipiamo un estratto
del discorso che Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose,
pronuncerà domani in Senato in occasione della Giornata nazionale per
la memoria delle vittime dell’immigrazione