Repubblica 29.10.16
Schiavitù il conto sospeso dell’America con la Storia
Il più influente intellettuale afroamericano, racconta le origini di una ferita ancora aperta
di Ta-Nehisi Coates
Nel
1783 la schiava liberata Belinda Royall presentò allo Stato del
Massachusetts una domanda di risarcimento. Belinda era nata nell’attuale
Ghana, e da bambina fu rapita e venduta come schiava. Affrontò il
Passaggio Intermedio e cinquant’anni di schiavitù in mano a Isaac Royall
e suo figlio. Quest’ultimo, però, un lealista britannico, fuggì dal
Paese durante la guerra d’indipendenza americana. Belinda, tornata
libera dopo mezzo secolo di fatiche, rivolse questa supplica alla
nascente assemblea legislativa del Massachusetts: «Il volto di chi si
rivolge a Voi è oggi segnato dai solchi del tempo, il corpo piepiegato
da
anni di oppressione, eppure in base alla Legge della Terra a lei è
negato anche un solo boccone di quell’immensa ricchezza che in parte è
stata accumulata grazie alla sua operosità, e nell’insieme accresciuta
dalla sua schiavitù. Ragion per cui costei vi supplica... affinché a
ricompensa della Virtù e in giusto riconoscimento dell’onesta operosità,
tale somma le venga concessa».
A Belinda Royall fu garantita una
pensione di 15 pound e 12 scellini, una somma attinta dalle rendite del
patrimonio fondiario di Isaac Royall: fu una delle primissime richieste
di risarcimento che andarono a buon fine. Ma anche se nel corso del
tempo i portavoce delle richieste di risarcimento sono cambiati, la
risposta del Paese è rimasta essenzialmente la stessa. Ecco che cosa si
leggeva in un editoriale del Chicago Tribune nel 1891: «È stato
insegnato loro a lavorare. È stata insegnata loro la civiltà cristiana e
la nobile lingua inglese invece di qualche incomprensibile parlata
africana. Non abbiamo alcun tipo di debito nei confronti degli ex
schiavi». Le cose, però, non stavano proprio così. Dopo
duecentocinquant’anni di schiavitù, i neri non venivano comunque
lasciati in pace. Vivevano nel terrore. Nel profondo Sud vigeva una
seconda schiavitù. Al Nord assemblee legislative, sindaci, associazioni
civiche, banche e cittadini, tutti cospiravano per relegare i neri nei
ghetti, in una condizione di sovraffollamento, sfruttamento economico e
bassi livelli di istruzione. Il mondo del lavoro li discriminava,
riservando loro le mansioni peggiori e i salari più bassi. La polizia li
vessava per le strade. Oggi abbiamo in parte preso le distanze dai
nostri lunghi secoli di saccheggio, promettendo «mai più», ma i loro
fantasmi ci perseguitano ancora. È come se avessimo accumulato un debito
sulla carta di credito, e pur essendoci impegnati a non spendere altri
soldi non ci capacitassimo del fatto che il saldo negativo non sia
scomparso. Gli effetti di quel saldo, con interessi che aumentano ogni
giorno, sono ovunque intorno a noi.
Oggi, appena salta fuori
l’argomento dei risarcimenti, immancabilmente si scatena una raffica di
domande: chi ne avrà diritto? A quanto ammonteranno? Chi li pagherà? Ma
se sono gli aspetti pratici dei risarcimenti, e non la loro legittimità,
a costituire il vero intoppo, per un certo periodo si era potuta vedere
una soluzione. Negli ultimi venticinque anni John Conyers jr, membro
della Camera dei Rappresentanti per il Michigan, ha presentato in ogni
seduta un’istanza affinché il Congresso avviasse uno studio sulla
schiavitù, sui suoi effetti nel tempo e sulla messa a punto di
«opportuni rimedi». Un Paese a cui importasse davvero capire come
organizzare la questione sul piano pratico avrebbe già trovato molte
risposte nell’istanza di Conyers, oggi chiamata H.R. 40. Se fossimo
davvero interessati, ci faremmo promotori di questa istanza, studieremmo
la questione e infine valuteremmo le possibili soluzioni.
Una
nazione sopravvive alle proprie generazioni. Non c’eravamo quando George
Washington ha attraversato il fiume Delaware, eppure il dipinto di
Emanuel Gottlieb Leutze significa molto per noi. Non c’eravamo quando
Woodrow Wilson ci ha fatto entrare nella prima guerra mondiale, eppure
stiamo ancora pagando le pensioni di guerra. Se il genio di Thomas
Jefferson è importante, deve esserlo anche il suo possesso del corpo di
Sally Hemings. Se George Washington che attraversa il Delaware è
importante, deve esserlo anche il suo implacabile inseguimento della
schiava fuggiasca Oney Judge. Nel 1909 il presidente William Howard Taft
dichiarò di fronte alla nazione che i cittadini bianchi del Sud
«intelligenti» erano pronti a considerare i neri come «membri utili
della comunità». Una settimana dopo Joseph Gordon, un nero, fu linciato
alle porte di Greenwood, Mississippi. L’era dei linciaggi quotidiani è
lontana, ma il ricordo di coloro che sono stati depredati della loro
stessa vita sopravvive negli effetti persistenti di quelle violenze.
In
realtà, in America c’è la bizzarra e profonda convinzione che se
pugnali un nero dieci volte smetterà di sanguinare e inizierà a guarire
appena mollerai il coltello. Siamo convinti che il predominio bianco
appartenga a un passato inerte, che sia un debito colpevole che possiamo
cancellare soltanto distogliendo lo sguardo. È sempre esistita un’altra
via. «Non ha senso dire che sono stati i nostri antenati a portarli
qui, e non noi» dichiarò nel 1810 Timothy Dwight, rettore di Yale. «Noi
ereditiamo il nostro vasto patrimonio con tutti i suoi oneri, e siamo
tenuti a saldare i debiti dei nostri antenati. In particolare questo
debito, e quando il Giudice dell’Universo verrà a giudicare equamente i
suoi servi, sarà inflessibile nell’esigere proprio da noi quel
pagamento. Concedere loro la libertà e non fare nient’altro equivale a
gettare su di loro una maledizione».
IL LIBRO Questo testo è
tratto da Un conto ancora aperto (Codice, trad. di Daria Restani pagg.
109, euro 9,90) di Ta- Nehisi Coates