Corriere 29.10.16
In Oregon
Assolti tutti i cowboy che diedero vita a una rivolta armata
di Giuseppe Sarcina
NEW
YORK Per quasi sei settimane avevano occupato, armi in pugno, un
rifugio federale nei boschi di Burns, un remoto villaggio dell’Oregon,
Stato sulla costa occidentale degli Usa. Agli inizi di gennaio alcune
decine di persone fecero irruzione nel Malheur National Wildlife Refuge.
Alla loro testa i due fratelli Ammon e Ryan Bundy. Divise mimetiche,
fucili di precisione, minacce di sparare a vista.
L’altro ieri,
giovedì 27 ottobre, la Corte federale di Portland, nell’Oregon, ha
assolto i Bundy e altri cinque imputati finiti a processo, tra cui una
donna, Shawna Cox. La giuria ha accolto la tesi dell’avvocato difensore
Marcus Mumford: i cowboy stavano esercitando il diritto alla protesta,
«senza danneggiare nessuno». Una piccola folla ha festeggiato davanti al
tribunale di Portland. I fratelli Bundy, comunque, restano in prigione:
devono rispondere per un’altra «resistenza armata» che risale a due
anni fa, in Nevada.
Ma il verdetto è sconcertante: in questo
stesso Paese proprio ieri la polizia, in assetto anti sommossa, ha
arrestato 141 persone che, ugualmente, «esercitavano il diritto alla
protesta» contro la costruzione di un gasdotto nel Nord Dakota. Con la
differenza che gli accoliti dei fratelli Bundy sono bianchi ed erano
equipaggiati come un commando paramilitare, mentre gli attivisti «anti
pipeline» sono in gran parte pacifici nativi americani, della antica
tribù dei Sioux.
La governatrice dell’Oregon, Kate Brown, Partito
democratico, ha diffuso una nota di «disappunto»: «L’occupazione del
Malheur Reserve non riflette il modo in cui l’Oregon lavora insieme e
rispettosamente per risolvere i problemi».
Evidentemente esiste
un’altra parte di America che confida nella forza, nei metodi
sbrigativi, muscolari. È un filo che lega la vicenda dell’Oregon con le
minacce di alcune frange dei sostenitori di Donald Trump, pronti,
dicono, alla «rivoluzione» se l’8 novembre il tycoon dovesse perdere le
elezioni. La sentenza di Portland, ora, mostra fino a che punto può
arrivare l’impunità.
Per un mese e mezzo gli agenti dell’Oregon si
sono limitati a sorvegliare l’impresa guidata da Ammon Bundy, 41 anni,
nato a Emmett, nell’Idaho, ma poi trasferitosi con il fratello Ryan, 43
anni, e il padre Cliven nel Nevada. Una famiglia di allevatori, di gente
in grande confidenza con fucili e pistole, da anni in rivolta contro lo
Stato federale accusato di controllare troppo territorio, «rubandolo»
ai privati. Sempre rapidi a buttarsi nella mischia i Bundy.
Così
quando, all’inizio dell’anno, si diffuse la notizia che nell’Oregon
altri due cowboy, i fratelli Hammond, erano stati condannati per aver
bruciato l’erba in un terreno federale, i Bundy mollarono il ranch del
Nevada e si precipitarono a Burns. Misero insieme una squadra e presero
il controllo del rifugio, sloggiando gli impiegati federali del «Fish
and Wildlife Service».
Per giorni e giorni l’opinione pubblica
seguì in diretta televisiva, sempre più stupita, le gesta dei fratelli
Bundy. Osservava sugli schermi le gote arrossate dal freddo e forse
dall’imbarazzo dello sceriffo David Ward. Appelli paterni, pieni di buon
senso: «Dite di essere venuti qui per aiutare la popolazione locale. Ma
l’aiuto finisce quando una protesta pacifica diventa un’occupazione
armata. Tornate a casa dalle vostre famiglie e finiamo questa vicenda
senza violenze». In realtà ci fu anche una vittima: LaVoy Finicum, 54
anni, allevatore dell’Arizona, padre di 11 figli, che girava con un
cinturone da film western, con le pallottole dorate. Fu ucciso a un
posto di blocco da una pattuglia della polizia dell’Oregon.
Intanto
molti americani, in tv, sui social network, sui giornali si chiedevano
che cosa sarebbe successo se quel rifugio fosse stato occupato da
militanti musulmani o afroamericani. Proprio in quei giorni si ragionava
sull’alto numero di maschi neri uccisi dagli agenti solo nel 2015: 160.
Tutte queste domande ritornano ora, nel mezzo di una vigilia elettorale forse mai così aspra.