sabato 29 ottobre 2016

il manifesto 29.10.16
Il partito elettorale e la democrazia in America
Stati uniti. Se c’è qualcosa che l’esperienza di Obama dimostra è l’importanza di avere un partito, un programma, un ceto politico professionale su cui quotidianamente contare. Non un partito elettorale che si attiva per le elezioni con messinscena umilianti come chiederti di fare gli auguri di compleanno a Hillary e rimproverarti severamente se non lo fai e farlo comporta un dollaro di finanziamento ultrademocratico
di Rita di Leo

Come abbonata a media americani di politica estera, mi trovo chissà come in una mailing list di sostegno al partito democratico. Ogni giorno ricevo almeno 3-4 mail da Hillary Clinton, Nancy Pelosy e altri nomi famosi, che iniziano con parole ‘alate’ e finiscono con la richiesta di dare 3 dollari al partito. Ieri mi ha mandato una mail Obama: Hi! Rita…
Chiedere il coinvolgimento finanziario, anche minimo alla propria base, è considerata la prova inconfutabile di quanto radicata è la partecipazione politica del paese. Come confutare un tale assioma? Ricordando: 1. L’elevata astensione al voto che mette in dubbio proprio la partecipazione politica; 2. L’esistenza dei SuperPacs, la montagna di soldi che le 156 famiglie di super ricchi investono per poter contare su senatori, deputati, governatori, giudici, sceriffi, di loro personale, esclusiva fiducia.
Sono mesi e mesi che i media ci bombardano con le notizie sulla guerra tra Hillary Clinton e Trump, mentre i potenti dei due partiti stanno lavorando a livello locale per l’elezione dei propri uomini. La meteora Trump ha messo a rischio la maggioranza repubblicana al Senato, al Congresso e dovunque si decide la ripartizione delle risorse pubbliche e innanzitutto quelle dell’apparato strategico-militare. La vittoria, al momento sicura della Clinton, avrebbe un impatto minimo sulla gestione del potere se i repubblicani mantenessero la maggioranza. È stato drammaticamente evidente con Obama, il quale persa la maggioranza a metà del suo primo mandato, ha potuto continuare a fare discorsi bellissimi privi di conseguenze pratiche. Questo per la politica interna.
Per la politica estera le differenti strategie di Hillary Clinton, nelle sue precedenti funzioni di quasi presidente, e poi degli uomini del Pentagono, e delle altre potentissime istituzioni, hanno fatto fare a Obama mosse in contrasto con quello che aveva promesso appena eletto l’uomo che sarebbe il più potente del mondo.
Si pensi al suo discorso al Cairo del 2009, alle sue aperture nei confronti del mondo non bianco, così in contrasto con quanto sta avvenendo oggi. L’uomo più potente del mondo dipende da chi lo ha fatto entrare alla Casa Bianca, oggi dalle élite finanziarie, nel passato dalle variegate oligarchie di potere proprie al paese. Un paese che si considera democratico perché non dipende da partiti di politici professionali, da governi che si reggono su coalizioni ad hoc, e si vanta di avere uno stato federale le cui leggi possono non essere accettate dagli altri stati. Un paese orgoglioso di aver inaugurato il primo suffragio universale ma che è lo stesso dove, ancora nel 2016, ciascun stato può porre vincoli all’esercizio del voto.
Nella storia recente del paese il solo presidente che ha modificato almeno un po’ lo stato delle cose nel sociale e nelle relazioni di lavoro è stato, incredibilmente, Lyndon Johnson, un raro esemplare di politico professionale, capace di fare accordi e compromessi con avversari. È accaduto 50 anni fa quando ha contrattato e fatto accettare da tutti gli stati la Great Society, il suo programma politico di misure sociali e di diritti civili. Obama ha alzato il salario minimo federale ma a giovarsene sono stati solo i dipendenti federali. Il fine intellettuale Obama non è stato in grado di far fronte agli ostacoli quotidiani una volta che la macchina del potere gli si è messa contro. Non è stato in grado perché in quella macchina vi era anche il suo partito, c’era Hillary Clinton e quasi tutti i maggiorenti, disinteressati alle sue proposte in politica interna, e ostili ai suoi orientamenti in politica estera.
Se c’è qualcosa che l’esperienza di Obama dimostra è l’importanza di avere un partito, un programma, un ceto politico professionale su cui quotidianamente contare. Non un partito elettorale che si attiva per le elezioni con messinscena umilianti come chiederti di fare gli auguri di compleanno a Hillary e rimproverarti severamente se non lo fai e farlo comporta un dollaro di finanziamento ultrademocratico.
Questa democrazia poi è retta da appositi algoritmi solo che manca l’algoritmo che fa sapere a chi ti tempesta di messaggi che non sei cittadina americana, che non puoi votare e nemmeno partecipare al finanziamento di base: la prova più inconfutabile del coinvolgimento politico individuale. L’individuo è chiamato a partecipare alla campagna elettorale e poi sparisce di scena. E nel caso Obama lo lascia solo, senza uomini e leve cui fare riferimento per le sue quotidiane lotte politiche contro avversari interni e esterni. L’esperienza Obama alimenta la preoccupazione per il distacco/disprezzo crescente per come la politica funzionava da noi europei sino a ieri.
Vi era un progetto che diventava un programma cui aderire nel quotidiano e in occasione degli appuntamenti elettorali, vi erano sedi dove discuterlo, funzionari, tutti all’apparenza burocrati, che però le sedi le tenevano aperte, e in esse esprimevi il tuo consenso o dissenso, dove potevi crearti un seguito oppure essere espulso, dove c’era una dinamica politica ben differente dal dollaro come augurio al compleanno di Hillary. L’uscita di scena di Obama riguarda anche noi, il rischio di liberarsi dei burocrati e di farsi gestire dagli algoritmi.