il manifesto 29.10.16
Stati Uniti, il trucco contro il voto etnico
L’ultima
battaglia della Guerra Civile. L’«accesso elettorale» rimane una ferita
aperta nel paese di Ferguson e di Black Lives Matter
di Luca Celada
LOS
ANGELES Le elezioni sono cominciate: circa 6 milioni di voti per
Clinton e Trump sono già stati raccolti negli stati che prevedono il
voto anticipato. Ad Orlando si usano le biblioteche comunali; a Las
Vegas i seggi sono stati allestiti in centri commerciali e perfino in un
angolo dell’ Alberston’s, un supermercato nel sobborgo di Henderson. In
37 stati da questa settimana è in corso l’early voting, negli appositi
seggi o via schede spedite per posta.
In tutto potrebbe essere più
di un terzo della popolazione ad aver votato prima ancora dell’aperture
dei seggi l’8 novembre. La vittoria potrebbe giocarsi sul filo di una
manciata di preferenze racimolate in Nevada o Pennsylvania, in Ohio o in
Florida (come imparò nel 2000 Al Gore). E mentre i sondaggi assegnano
ancora alla Clinton vantaggi di misura in molti swing state Trump invoca
«l’effetto brexit» e tuona contro «il complotto» che lo vorrebbe
perdente. Ma l’unico complotto che pare esistere è – semmai – di segno
contrario: una strategia coordinata per «attutire» il voto etnico e afro
americano che tradizionalmente favorisce i democratici.
Non è
esagerato dire che dalla soppressione del voto di colore dipendono in
qualche modo sia le sorti di Trump che quelle a lungo termine di un
partito repubblicano che si trova dalla parte sbagliata della storia
demografica del paese. Per effetto della continuata crescita della
popolazione ispanica (oggi già la maggiore minoranza etnica, al 17%), i
banchi in America sono destinati a scendere sotto la soglia del 50%
entro il 2030.
La affidabile base di bianchi (soprattutto maschi)
che hanno eletto ogni presidente repubblicano del dopoguerra sta quindi
inesorabilmente evaporando. I tre democratici degli ultimi 60 anni,
Kennedy, Clinton e Obama, sono giunti alla Casa bianca solo grazie a
coalizioni di una minoranza bianca più maggioranze nere, latine e
asiatiche. L’attuale deriva demografica non lascia insomma ben sperare i
conservatori per il futuro.
Nella versione strumentale di Trump
il possibilismo democratico sull’immigrazione diventa il complotto per
inondare il paese di minoranze per «sopraffare» il voto degli americani
«veri».
Si tratta di un vecchio discorso calibrato per far leva su
antiche fobie razziali che ricollegano questa campagna a tensioni
ancorate nel sud ex schiavista e alla ferita del razzismo suppurante dai
tempi della guerra civile.
Dopo la vittoria dell’Unione sugli
stati confederati agli schiavi liberati venne dato il diritto di voto
sotto la protezione delle forze di occupazione nordiste. Le
amministrazioni federali tentarono in tal modo di pilotare da Washington
l’integrazione delle popolazioni afro americane liberate in una
democrazia rappresentativa. Al ventennio fallito della reconstruction,
seguì una violenta reazione. La restaurazione dei bianchi sudisti
impiegò milizie come il Ku Klux Klan e segnò l’inizio della sanguinosa
stagione dei linciaggi che si protrasse fino al ventesimo secolo.
Quegli
eventi, glorificati nel Birth of a Nation – il manifesto suprematista
di DW Griffith – decretarono la nascita di un regime di apartheid
imposto con la violenza, con gli statuti segregazionisti «Jim Crow» e,
crucialmente, con misure che miravano ad restringere il suffragio
universale con tasse d’iscrizione alle liste di voto e perfino l’obbligo
di passare un esame di alfabetizzazione per tenere le maggioranze nere
lontane dalle urne. Riconsolidato il potere bianco, le misure rimasero
in vigore fino agli anni 60 e la loro abrogazione fu fra le principali
rivendicazioni di Martin Luther King il cui maggior successo fu il
voting rights act del 1965 negoziato con Lyndon Johnson.
Quello
statuto comprendeva il sostanziale commissariamento degli stati sudisti
cui venne tolta la facoltà di imporre regole elettorali senza l’avallo
delle corti federali. Ma recentemente, una serie di sentenze promulgate
dalla corte suprema a maggioranza repubblicana e implementate da
legislature statali controllate dal Gop, proprio nel cinquantenario del
voting rights act hanno cominciato a eroderne le garanzie. A partire dal
2014 diversi stati – ad oggi almeno quattordici – sono tornati a
istituire barriere al voto. Le nuove regole impongono l’obbligo di
molteplici documenti per votare, penalizzando minoranze, anziani,
giovani e popolazioni marginalizzate, specie in un paese in cui i
documenti di identità non sono generalmente obbligatori e poco diffusi
(è stato calcolato che nel solo Wisconsin 300.000 elettori non
dispongano di documenti in regola).
Dopo che il North Carolina ha
imposto l’iscrizione preventiva alle liste di voto nel 2014, almeno
2.300 elettori si sono visti respingere ai seggi. In ognuno dei casi le
restrizioni sono motivate dal rischio degli stessi «dilaganti brogli»
di cui parla Trump, pur in assenza della minima prova. L’accesso al
voto rimane una ferita aperta nell’America di Ferguson e di Black Lives
Matter. E la battaglia per l’accesso alle urne continua: anche nel
momento in cui l’America deve scegliere il successore al primo
presidente afro americano.
Non a caso in questi giorni c’è un film
nelle sale americane, il documentario 13th, nel quale Ava DuVernay (già
autrice di Selma) documenta con la partecipazione di Angela Davis i
sistemi con cui, dopo l’abolizione della schiavitù (col tredicesimo
emendamento), si è operato per limitare il peso politico degli afro
americani.
Fra i più lampanti c’è la carcerazione di massa nel
sistema penale-industriale del paese in cui languono 2,3 milioni di
detenuti, i neri con una percentuale quadrupla dei bianchi. E per la
legge federale in America un detenuto – anche dopo aver scontato la pena
– non può più legalmente votare.