sabato 29 ottobre 2016

La Stampa 29.10.16
Duterte, lo sceriffo convertito
“Basta bestemmie, me lo dice Dio”
Il presidente filippino volta le spalle agli Stati Uniti e si allea con la Cina
di Carlo Pizzati

Che settimana di fuoco per il presidente filippino Duterte e per il fragile equilibrio dell’Oceano Pacifico, in un valzer pericoloso tra Cina, Giappone, Filippine e ora anche il Vietnam. Iniziamo da com’è finita, giusto per far due risate su una questione che però è serissima e può esser ricondotta a ciò che tiene con il fiato sospeso il mondo intero: le elezioni presidenziali americane.
Alla fine di una settimana in cui Rodrigo Duterte è rimbalzato dalla Cina a Tokyo e infine di nuovo a Manila, flirtando con Pechino e sconvolgendo alleanze commerciali e militari con gli Usa, il presidente che si è paragonato a Hitler e che ha definito Barack Obama un «figlio di p…», ha finalmente ammesso di sentire la voce di Dio. Non è uno scherzo, è quel che ha detto dopo aver fatto il frequent-flyer per il Pacifico: «Guardavo il cielo mentre volavo qui. Tutti dormivano e russavano. Una voce mi ha detto: lo sai che se non smetti di dire le parolacce farò schiantare questo aereo, proprio adesso. E io: chi parla? E la voce: ovvio, sono Dio. Ah, va bene. Allora ho promesso a Dio di non esprimermi più così». Allucinazioni da psicopatico o guasconate da demagogo, certo. Ma dietro alla battuta c’è un ex sindaco-sceriffo, responsabile del massacro di migliaia di filippini accusati di spaccio, che si vuol mettere alla prova come statista.
Fino a lunedì, Rodrigo «il duro» era in Cina. Mai prima d’ora un presidente filippino era stato intervistato da così tanti media cinesi che vogliono dargli spazio, visto quel che va dicendo degli Stati Uniti. Ha pure dato del gay, con intento spregiativo, all’ambasciatore americano uscente. Inoltre Duterte, invece di rivendicare la decisione della corte internazionale che a luglio ha condannato Pechino per la violazione del diritto e per danni ambientali nelle acque contese alle Filippine e a Taiwan nel mare del Sud della Cina, ha minimizzato: «Ah, quella condanna? Non è altro che un pezzo di carta con quattro angoli. Meglio rimandare lo scontro con la Cina su questa sentenza. Non è il momento». E poi, ai cinesi: «I vostri pesci sono i miei pesci. Risolveremo le cose, non è ora di andare alla guerra». Legalmente non ha potuto aprire le acque ai pescherecci cinesi, ma ha dato un segnale di remissività. Cosa significa? È un assist alla Cina per presentarsi nel Pacifico non più come truculenta forza espansionista che crea vittime e inventa isole, ma come nuova super potenza con cui stringere accordi e dialogare. È bastato che Trump annunciasse che gli Usa «non possono più essere i protettori del mondo» perché gli «squali» del Pacifico si preparassero a nuovi equilibri.
Rientrando a Manila, il presidente è venuto a sapere che Daniel Russell, vice segretario americano agli affari del Pacifico e dell’Asia dell’Est di passaggio nelle Filippine, aveva osato dire che Duterte sta creando «un clima d’incertezza» che non fa bene agli affari. Si parla di 4,7 miliardi di dollari di investimenti americani. «Quello è uno stupido» ha subito replicato. E ha invitato le imprese americane ad andarsene: «Fate le valige che è meglio. Faremo sacrifici. Ma vi assicuro che ci riprenderemo. Noi abbiamo affrontato e superato il peggio su questo pianeta!».
Poi se n’è partito per il Giappone, dove ha rincarato la dose sotto lo sguardo del premier Shinzo Abe, preoccupato dall’espansione cinese attorno alle sue isole. Duterte è stato chiaro. Non solo via al business, ma via anche alle forze armate americane. «Via tutte le truppe straniere dalle Filippine entro due anni. Sono disposto a sospendere gli accordi di ospitalità delle basi Usa». Si parla di cinque basi la cui permanenza è garantita da un accordo siglato con il suo predecessore. «Li voglio fuori. Queste saranno le ultime manovre militari e giochi di guerra con gli Stati Uniti». E ha spostato di un mese, al dopo-elezioni americano, il dialogo sul rinnovo delle basi.
Nel frattempo, anche il Vietnam ha un inedito riavvicinamento con la Cina, contro la quale era alleata fino a pochi mesi fa…assieme alle Filippine. Il premier vietnamita prima ha mandato il ministro degli Esteri ad addobbare con corone di fiori il mausoleo di Mao Tze-Tung a Pechino, e poi ha ricordato che il Vietnam non dimentica l’assistenza ricevuta in passato dalla Cina. Proprio contro gli Stati Uniti.
Indirette prove di nuove alleanze, nutrite dal timore di perdere il treno di un nuovo ordinamento strategico, dove lo zio Sam viene cacciato, mentre il drago cinese apre le sue ali sull’Oceano Pacifico.