Repubblica 29.10.16
La durezza dell’Ue, i  ritardi di Roma
di Ferdinando Giugliano
LA
 STRATEGIA della Commissione europea sulla legge di bilancio, che 
proprio in queste ore si appresta ad arrivare in Parlamento, appare, di 
primo acchito, sospesa fra l’ottuso e lo spietato. Le critiche mosse da 
Bruxelles, a cui ha risposto giovedì il ministro dell’economia Pier 
Carlo Padoan, riguardano un aumento del deficit pubblico pari allo 0,1 
per cento del prodotto interno lordo — più o meno quello che il nostro 
Paese produce ogni nove ore. Secondo i critici, innescare uno scontro 
politico con l’Italia per appena 1,6 miliardi vuol dire soffiare 
inutilmente sul fuoco dell’euroscetticismo. Farlo a ridosso di due 
terremoti, per i quali il governo è pronto a intervenire 
finanziariamente, trasformerebbe l’Ue in un mostro senza cuore, pronto a
 sacrificare gli sfollati su una pira di fogli Excel.
Questa 
interpretazione, molto diffusa in alcuni circoli politici e 
intellettuali italiani, è però incompleta: Bruxelles non è contraria a 
tenere fuori dal computo del deficit le spese legate al terremoto. Vuole
 solo evitare che queste siano gonfiate a dismisura. Lo 0,1% è soltanto 
l’ultima di una serie di deviazioni dal percorso di consolidamento 
fiscale compiute in questi anni. La loro somma — una legge di bilancio 
dopo l’altra — rischia di rendere l’economia italiana sempre più 
vulnerabile ai capricci dei mercati non appena sarà scomparso lo scudo 
della Banca centrale europea che tiene a riparo il nostro debito 
pubblico.
Il modo migliore per riconoscere questo problema è 
ripartire dalle prime previsioni economiche prodotte dal governo di 
Matteo Renzi e contenute nel Documento di economia e finanza del 2014, 
confrontandole con quelle dell’attuale manovra. Due anni e mezzo fa, 
l’esecutivo ipotizzava che il rapporto fra debito e Pil nel 2017 sarebbe
 stato del 125,1%, in discesa di sette punti percentuali e mezzo 
rispetto al 2013. Il documento inviato pochi giorni fa a Bruxelles stima
 invece per l’anno prossimo un debito al 132,6% del Pil, a fronte di un 
dato consolidato per il 2013 di 3,6 punti percentuali inferiore. Se si 
mettono insieme questi numeri, si nota come durante il governo Renzi il 
piano di riduzione del debito sia uscito fuori strada per oltre 11 punti
 percentuali di Pil. Si tratta di una cifra pari a più di cento volte lo
 sforamento che Bruxelles ci contesta quest’anno, per un totale di circa
 180 miliardi di euro.
Non tutto questo scartamento è, ovviamente,
 imputabile alle scelte del governo. Negli ultimi tre anni, la crescita 
mondiale è stata ben al di sotto delle aspettative. L’inflazione, che 
aiuta a rendere i debiti pubblici e privati più sostenibili erodendoli, è
 rimasta ferma a lungo a livelli intorno allo zero, a causa della 
discesa del prezzo del greggio e di una ripresa stentata. Allo stesso 
tempo, però, la spesa per interessi sul debito pubblico si è ridotta 
notevolmente, grazie al quantitative easing della Bce. Insomma, i 
fattori esterni aiutano a spiegare solo una piccola parte della 
deviazione dal percorso di probità fiscale che Renzi diceve di voler 
intraprendere.
Il détour dal risanamento dipende, invece, 
soprattutto da scelte che sono state fatte dall’esecutivo. La principale
 riguarda il cosiddetto “avanzo primario”, ovvero la differenza fra le 
entrate e le uscite, escludendo la spesa per interessi. All’inizio del 
suo mandato, Matteo Renzi aveva previsto che il suo governo avrebbe 
accumulato avanzi primari in quattro anni per un totale di quasi 15 
punti percentuali di Pil. Oggi ci si avvia ad una cifra di appena 6 
punti percentuali. La differenza è pari a oltre 140 dei circa 180 
miliardi di mancato risparmio che abbiamo notato. Se a questi dati 
sommiamo un percorso di privatizzazioni più deludente rispetto a quanto 
si era previsto a inizio 2014, lo smarrimento della via del 
consolidamento fiscale viene spiegato quasi nella sua interezza. La 
posizione dura della Commissione appare così più comprensibile che 
crudele.
Il governo ribatterà che la migliore strategia per 
ridurre il debito è rilanciare la crescita. Se in teoria questo è vero, 
non è affatto chiaro che le manovre relativamente espansive di questi 
anni abbiano prodotto un’accelerazione degna di questo nome. La legge di
 bilancio di quest’anno punta giustamente a rilanciare gli investimenti,
 ma disperde troppe risorse in misure di dubbia utilità a partire 
dall’estensione della platea di pensionati che riceveranno la 
quattordicesima. Lo scatto in avanti, insomma, è ancora rimandato.
Né
 è chiaro che, in assenza dei vincoli dell’Eurozona, l’Italia si sarebbe
 potuta permettere una politica di bilancio molto più espansiva. Le 
regole sul deficit e sul debito sono frutto di un compromesso politico, 
il prezzo da pagare per poter godere di tassi d’interesse bassi e di una
 valuta stabile. Inoltre, più allegra appare la spesa pubblica italiana,
 più difficile diventa per il presidente della Bce, Mario Draghi, 
difendere la politica monetaria ultra-espansiva che concede così tanto 
spazio di manovra all’Italia.
Infine, è proprio dalla Bce che 
potrebbe arrivare la peggiore notizia per il nostro governo. 
L’inflazione europea sta rialzando la testa, grazie alla stabilizzazione
 del costo del greggio: se questa tendenza aiuterà a ridurre il debito 
pubblico, l’accelerazione dei prezzi spingerà in su gli interessi dei 
titoli di Stato, come sta già accadendo in questi giorni, poiché gli 
investitori vorranno essere compensati. Il quantitative easing, che 
proseguirà finché i prezzi non accelereranno a ritmi compatibili con 
l’obbiettivo della Bce, potrebbe avere vita più breve di quanto 
auspichiamo.
Lo scontro su uno 0,1% è surreale ma porta echi di 
verità lontane. Dimenticarsi del problema del debito pubblico non basta 
per farlo scomparire.
 
