La Stampa 29.10.16
Uno scontro pericoloso sui migranti
di Stefano Stefanini
Non
deve stupire che Roma e Budapest siano ai ferri corti
sull’immigrazione. Lo scontro è sintomo del pessimo clima fra leader e
delle divisioni all’interno dell’Ue. Non sta certo all’Ungheria dare
giudizi sul deficit italiano. Né l’immigrazione in Italia è una minaccia
per gli ungheresi. Il premier ungherese ha colto l’occasione per salire
in cattedra sul terreno dove si sente più forte, sa di trovare amici e
vuole giocare la partita con l’Ue: il controllo delle frontiere.
Viktor
Orban è un improbabile paladino europeista. Da anni Budapest è il
pulcino nero dell’Unione su libertà democratiche e stato di diritto. Il
campo populista è oggi affollato, a Est come a Ovest, Italia compresa,
persino oltre Manica. Da Varsavia, Jaroslaw Kaczynski tira le fila della
rivolta anti-Bruxelles del gruppo di Visegrad. Ma il leader ungherese
può vantare la primogenitura. Ha lanciato per primo la sfida, ne ha
plasmato l’appello culturale e nazionale, ha tratto più ispirazione
dalla Mosca di Vladimir Putin che non dalla Berlino di Angela Merkel. Il
mezzo passo falso sul quorum nel referendum sull’immigrazione ha appena
scalfito la sua presa sul potere.
A Budapest e nel modesto
firmamento europeo, Viktor Orban rimane saldamente in sella a condizione
di non mollare sull’immigrazione. L’orrendo reticolato di filo spinato
che taglia il confine serbo-ungherese è il fiore all’occhiello della sua
popolarità, in casa e fuori. Lungi dall’esserne imbarazzato, Orban se
n’è vantato anche nella polemica con l’Italia: ecco come l’Ungheria
difende «i confini esterni dell’Ue». A differenza, implicitamente,
dell’Italia o della Grecia che ne fanno un colabrodo.
Per
geografia il confronto è risibile. Conta per la politica e per lo
scontro, che si gioca nei vertici europei ma ancor più alle urne, sul
futuro dell’Unione. Alla solidarietà invocata, con tonalità diverse, da
Bruxelles, Roma o Berlino, si oppone la rivendicazione intransigente
della sovranità nazionale. L’esercizio, o il recupero delle fette
cedute, comincia ai confini. Brexit docet: l’idea di «riprendere
controllo» è stata la molla psicologica che ha fatto pendere la bilancia
per l’uscita dall’Ue.
Budapest e Varsavia hanno imparato la
lezione ma non vogliono andarsene. Non si abbandona una casa così
comoda, ospitale, pagante e rassicurante. Vogliono cambiarla a loro
favore, subordinando Bruxelles alle capitali più di quanto già non lo
sia. Per Kaczynski e Orban «Brexit è un’opportunità» d’invertire il
senso di marcia dell’integrazione europea. Sono politici troppo
stagionati per non sapere di essere oggi in minoranza fra i governi. Ma
domani?
L’ondata populista che può spazzar via dall’interno
l’ortodossia europeista della maggior parte dei governi ha bisogno di
una causa. La trova nell’immigrazione. Ergendosi a baluardo per
fermarla, Orban la cavalca. Non difende solo l’Ungheria dalla «quota» di
qualche migliaio di rifugiati siriani o afghani; raccoglie le simpatie
dormienti in larghi strati dell’opinione pubblica europea. «Populisti di
tutta l’Europa unitevi»: ecco il suo messaggio.
Con il record di
arrivi nel 2016 l’Italia è la più esposta. Roma ha un disperato bisogno
di concreta solidarietà europea, che non può essere altro che la
ripartizione degli oneri, accompagnata da una vigorosa politica, pure
europea, di rimpatri (non sarebbe poi male, se poi l’Ue facesse qualcosa
di più risoluto per filtrare la rotta libica). Col referendum alle
porte, Matteo Renzi è vulnerabile. Il voto del 4 dicembre non ha nulla a
che fare con l’immigrazione, ma molte delle forze che votano «no», sono
i futuri alleati di Orban nello smantellamento populista dell’Europa
sovrannazionale. Ecco da dove nasce l’attacco.
La risposta
italiana non si è fatta attendere; sarebbe auspicabile che anche da
Bruxelles venisse un segnale di fermezza. Ma è necessaria anche qualche
riflessione. In vista del referendum, il presidente del Consiglio sta
seminando resistenza a spada tratta all’Ue sul bilancio; il rischio è
che, oltre a qualche «sì» di scontenti Ue raccolga anche isolamento
europeo - Orban ne ha spregiudicatamente approfittato deviando la
polemica dall’immigrazione al deficit. Bruxelles (e Berlino) devono
domandarsi se il gioco della rigidità fiscale valga la candela della
stabilità politica e, soprattutto, del consenso europeista in Italia.
L’immigrazione
è diventata il nervo scoperto dell’Europa. Richiede, da una parte,
solidarietà e divisione di oneri, costi e responsabilità; dall’altra,
diritto d’asilo e libera circolazione vanno adattati a una situazione di
arrivi e flussi di masse di popolazione. Il controllo delle frontiere
non è un capriccio nazionalista passeggero. O qualcuno l’esercita
rassicurando le opinioni pubbliche, o le nazioni se lo riprenderanno. E’
la scommessa di Orban. Solo l’Ue può fargliela perdere.