La Stampa 29.10.16
il difficile compito della corte dell’Aja
di Vladimiro Zagrebelsky
Quando
nel 1998 a Roma si conclusero i lavori del trattato per lo Statuto
della Corte penale internazionale, poi ratificato da 124 Stati, molti
salutarono l’avvenimento come un tornante storico del diritto
internazionale e la vittoria della giustizia contro l’impunità
generalmente assicurata ai governanti per i gravi crimini contro
l’umanità. Era prevalsa la convinzione che la punizione di genocidi,
crimini di guerra e contro l’umanità sia ormai da considerare compito
della comunità internazionale nel suo insieme. Dai processi di
Norimberga e di Tokyo sono derivate affermazioni di principio ormai
imprescindibili e negli anni recenti le Nazioni Unite hanno istituito
speciali tribunali internazionali, ad esempio per i crimini commessi
nella ex-Jugoslavia o per il genocidio nel Ruanda. Ma un compiuto punto
di arrivo è stato raggiunto con l’istituzione della Corte penale
internazionale.
Non si è trattato di un esito scontato. Diverse
erano le ragioni di chi si opponeva e si oppone al principio stesso di
cui la Corte penale internazionale è espressione. E non si tratta solo
del rifiuto opposto da Stati e governanti che cercano l’impunità ad ogni
costo o della posizione di Stati come Stati Uniti, Russia, Cina, India
tra i maggiori, che non riconoscono la giurisdizione della Corte
internazionale, perché non intendono ammettere che un giudice
internazionale possa esaminare denunzie di crimini commessi da propri
cittadini (non solo i governanti, ma anche i militari, i funzionari...).
Contro
la soluzione adottata con l’istituzione della Corte internazionale
veniva fatto valere che l’intervento giudiziario impedisce soluzioni
politiche concordate, che possono mettere fine a drammatici conflitti
interni e esterni consentendo ad esempio a governanti criminali di
abbandonare il Paese e trovare rifugio altrove: che la politica cioè,
piuttosto che la giustizia, sia adatta a gestire simili emergenze. Con
lo Statuto di Roma e l’istituzione della Corte che siede all’Aja è però
prevalsa una posizione di principio, che esclude l’impunità per i più
gravi crimini contro l’umanità e rifiuta di considerarli un affare
interno agli Stati da gestire da e tra i governi secondo le convenienze.
Molti Stati che dichiarano di non poter sopportare l’impunità dei
responsabili dei crimini contro l’umanità, tollerano tuttavia che, prima
della loro caduta, coloro che li commettono siano considerati
interlocutori politici, economici, militari.
La vicenda siriana ne
è esempio chiaro, per il suo svolgimento con gli interventi di tanti
Paesi terzi. Nel 2014, quando ancora si trattava di un conflitto
essenzialmente interno, una mozione di 65 Stati membri delle Nazioni
Unite per istituire un processo contro Bashar al-Assad venne bloccata
dal veto di Russia e Cina in Consiglio di Sicurezza. Con il senno di
poi, si può pensare che quel veto abbia impedito una «soluzione
giudiziaria» che avrebbe posto fine allo scontro che sconvolge tutta la
regione? Difficile crederlo, ma l’uso apertamente politico per interessi
nazionali, nell’attivare o nel bloccare l’azione degli organi della
Corte penale internazionale offre spazio alla crisi che rischia ora di
travolgere la Corte: offre spazio cioè all’accusa di selettività
politica e discriminazione sollevata dall’Unione Africana e dai 34 Paesi
d’Africa, che, dopo averne ratificato l’istituzione, ora si rivolgono
contro la Corte.
Dopo il Burundi, adesso, nell’imminenza della
sessione dell’assemblea degli Stati parti del sistema, il Gambia e il
Sud Africa, rivendicando l’immunità dei capi di Stato, hanno dichiarato
l’intenzione di denunziare il trattato. L’accusa di pregiudizio deriva
dal fatto che la maggioranza delle inchieste in corso riguardano Stati
africani. E le inchieste giunte a giudizio riguardano solo Stati
africani. È dunque possibile chiedersi se non vi sia uno sguardo
indagatore rivolto solo all’Africa e un occhio di favore altrove.
L’addebito alla Corte di destinare troppa attenzione a ciò che accade
nei Paesi del continente nero dovrebbe però essere rovesciato,
criticando semmai la disattenzione per ciò che si verifica in altre
parti del mondo. Ma la radice del problema si trova nella realtà
politica mondiale, che l’istituzione della Corte internazionale avrebbe
voluto correggere. È vero che il Procuratore della Corte potrebbe agire
di propria iniziativa o su denunzia di uno Stato parte del sistema (ma
sono evidenti le difficoltà di indagini che si svolgono nel territorio
di Stati che non vogliono o possono collaborare). Tuttavia è agli Stati e
soprattutto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che occorre
guardare, per costatare che quello è il luogo ove abita la politica
della forza e non l’idea della giustizia internazionale.