Repubblica 28.10.16
Il tramonto dei socialisti europei
Socialismo la crisi in Europa
Il populismo assedia le forze di sinistra in tutto il continente
di Giancarlo Bosetti
È
FINITA la benzina, non ne abbiamo più per continuare il viaggio». Il
militante socialista francese, al quartier generale, parla così della
presidenza di Hollande e del suo partito davanti ai cronisti. E descrive
le riunioni come un «funerale di famiglia». Ma questa cupa atmosfera
tra i socialisti riguarda solo la Francia? A Parigi piangono, ma anche a
Madrid, Londra e Berlino hanno poco da festeggiare. I momenti della
sinistra “gloom and doom” — come li chiamava Eric Hobsbawm, avvilimento e
senso di fosco destino — non sono nuovi, ma stavolta la speranza non
trova varchi.
NELLA capitale francese i sondaggi confermano il
militante scoraggiato. Alle prossime presidenziali il leader socialista
in carica non arriverebbe al ballottaggio, dietro a Le Pen e Juppé (o
Sarkozy?) e forse persino a Mélenchon. Il suo indice di gradimento ha
raggiunto il minimo depressionario del 4%. Altrove in Europa le
percentuali sono più alte, ma nessuno appare in corsa per la vittoria,
come accadeva non tanto tempo fa.
Pedro Sánchez si è dimesso dopo 9
mesi di tormentosa resistenza all’idea di appoggiare il governo Rajoy;
ora il Psoe ne consentirà, con l’astensione, la nascita. Che sia o no
una vera coalizione, sarà Podemos a trarne beneficio. E la sinistra
aggraverà le sue divisioni.
La Spd di Sigmar Gabriel naviga anche
lei con le vele ammosciate intorno al 20 per cento; il suo elettorato è
saccheggiato dalla Linke e dai populisti, gli iscritti sono scesi da un
milione a 400mila, ed è al governo, ma solo perché sta sulla scia della
Merkel.
Il Labour di Jeremy Corbyn appare sempre più lontano dal
governo. Il leader dell’opposizione britannica ha vinto il congresso
nonostante lo scontro con il gruppo parlamentare e il gabinetto ombra.
Ha potuto proclamare il suo come «il più grande partito socialista
dell’Europa occidentale». Detto da lui sembra una buona notizia, che
esalta il nucleo dei suoi sostenitori, ma quelle parole segnano anche un
cambiamento radicale, la fine del New Labour inteso come grande partito
di centrosinistra, capace di tenere i conservatori all’opposizione per
tre mandati. Socialismo per Corbyn significa nazionalizzazioni e dunque
rappresenta un’inversione di marcia che sta portando il gruppo dirigente
fino al rischio di una scissione.
Questi quattro grandi partiti
sono presi nella morsa degli interrogativi sulla propria identità: forze
con un passato di governo, con un seguito e un’organizzazione
imponente, e oggi assediate dal voto populista e ristrette in dimensioni
e ruoli minori. Non hanno retto al cambio di paradigma dell’economia e
della politica. La perdita di chiari connotati sociali o ideologici, la
frammentazione sociale e comunicativa, l’aggregarsi del consenso in
forme volatili intorno a leadership con poche, o senza, mediazioni
organizzate, tutto questo scatena reazioni nostalgiche. E la sinistra
italiana?
Se il Labour aveva fatto il salto nella nuova dimensione
nel ‘98, il Partito democratico italiano l’ha cominciato 9 anni dopo,
nel 2007, assumendo con Veltroni la forma attuale, disegnata per
conquistare la maggioranza senza coalizione, e completandola con Renzi
che ha allargato i consensi nel bacino elettorale del centro. Ma i
laburisti hanno ora praticamente revocato l’innovazione e nei sondaggi
stanno a distanze abissali dal governo. Quanto al PD, invece, la difende
ancora, anche se l’erosione populista e la minaccia permanente di una
guerra civile interna ad opera della minoranza tendono a riportarlo al
passato. Per aprire, nel 2013, con la vittoria di Renzi, la prospettiva
di un partito piglia-tutto, sono state decisive le primarie aperte
potenzialmente a tutto l’elettorato e non solo agli affiliati (come
invece per il Labour). Non è un caso che siano proprio le primarie il
punto di attacco della vecchia guardia, che vorrebbe ricondurre la
scelta del segretario ai soli iscritti, per rimettere le cose “al loro
posto” e ritornare nel vecchio alveo degli elettori d’antan (nel
frattempo fisiologicamente diminuiti). Un ritorno alla “normalità’”,
insomma, che viene implacabilmente desiderato, da alcuni, come un
destino di ridimensionamento.
Per quanto strano, la struggente
ambizione di evitare il governo può fiorire anche a sinistra, non solo
tra i populisti dell’antipolitica (il sindaco di Roma ne sa qualcosa). E
quando si perdono consensi ci si ritrova, come accade ora ai socialisti
francesi, a desiderare di influire sulle primarie degli altri, cioè
della destra, per poter votare Juppé, in modo da evitare di ritrovarsi
al ballottaggio Sarkozy come unica alternativa a Marine Le Pen (e forse
più facilmente con lei soccombente).
Anche l’economista Thomas Piketty, giunti a questo punto, come ha confessato al
Nouvel
Observateur, è pronto a firmare la carta dei valori della destra
(condizione per partecipare alle primarie) pur di assicurarsi il meno
peggio, per tutti.