Repubblica 28.10.16
Referendum, che confusione su ambiente e cultura
di Tomaso Montanari
CON
il referendum d’autunno saremo chiamati a decidere anche del futuro
dell’ambiente e del patrimonio culturale della nazione. Non molti lo
sanno, perché il dibattito sulla riforma costituzionale non ha finora
lasciato spazio all’analisi dell’impatto che essa avrà su quest’ambito
cruciale. Eppure i cambiamenti del riparto delle competenze tra Stato e
Regioni introdotti dal nuovo articolo 117 comportano conseguenze
rilevanti.
Come è ben noto, l’assetto attuale di quell’articolo è
frutto della riforma del titolo V della Carta promossa nel 2001 da un
Centrosinistra sotto la pressione dell’assedio secessionista della Lega.
Schizofrenicamente, esso mantiene allo Stato la «legislazione
esclusiva» in fatto di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni
culturali», ma assegna alla legislazione concorrente delle Regioni la
«valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e
organizzazione di attività culturali ». Una mediazione che ha funzionato
solo sulla carta: perché i confini tra la tutela e la valorizzazione
sono impossibili da fissare in teoria, e a maggior ragione in pratica.
Infatti l’unico risultato di quella riforma è stato un enorme
contenzioso tra Stato e Regioni, che ha intasato per anni la Corte
Costituzionale e ha finito per intralciare pesantemente il governo del
patrimonio culturale.
Una riforma di quella riforma era dunque
auspicabile: purché riuscisse a risolverne i guasti optando con
decisione per una soluzione (statalista o regionalista), o almeno
dividendo le competenze con chiarezza.
Non è questo, purtroppo,
l’esito della riforma su cui siamo chiamati a votare. Perché, se da una
parte l’articolo 117 ricompone l’unità naturale assegnando
(condivisibilmente) allo Stato la legislazione esclusiva su «tutela e
valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici », dall’altra lo
stesso articolo assegna, contraddittoriamente, alle Regioni la potestà
legislativa «in materia di disciplina, per quanto di interesse
regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni
ambientali, culturali e paesaggistici». Esattamente come nel caso, ben
più noto, dell’iter legislativo tra Camera e nuovo Senato, anche in
questo settore la riforma crea più incertezza e confusione di quante non
riesca a eliminarne. Sia che le intendiamo (come dovremmo) in senso
culturale, sia che le intendiamo (come accade normalmente) in senso
commerciale nessuno è infatti in grado di spiegare quali siano le
differenze tra la «valorizzazione» (su cui potrà legiferare solo lo
Stato) e la «promozione» (su cui lo potranno fare anche le Regioni): ed è
facile prevedere che, ove la riforma fosse approvata, si aprirebbe una
nuova stagione di feroce contenzioso.
Ma cosa ha in mente il
riformatore che prova a introdurre in Costituzione la nozione di
promozione? Un’analisi del lessico attuale della politica mostra che
siamo assai lontani da quel «promuove lo sviluppo della cultura» che,
d’altra parte, i principi fondamentali (all’articolo 9) assegnano
esclusivamente alla Repubblica (intesa come Stato centrale, come
chiarisce la lettura del dibattito in Costituente). Tutto il discorso
pubblico del governo Renzi dimostra che «promozione» va, invece, intesa
in senso pubblicitario, come sinonimo di marketing. E anzi, i documenti
ufficiali del Mibact arrivano a dire apertamente (cito un comunicato del
2 maggio) che il patrimonio stesso è «uno strumento di promozione
dell’immagine dell’Italia nel mondo».
Se, dunque, la promozione è
questa, è difficile capire perché, in uno dei pochi interventi del
governo su questo punto della riforma (il discorso del ministro Dario
Franceschini all’assemblea di Confindustria), si sia affermato che la
riforma diminuirebbe la spesa, per esempio impedendo alle Regioni di
aprire uffici promozionali all’estero: quando, al contrario,
l’invenzione di una competenza regionale proprio in fatto di promozione
apre le porte a una stagione di spesa incontrollata.
La grave
approssimazione con cui il riformatore si è occupato di patrimonio
culturale risalta particolarmente quando si consideri la determinazione e
la coerenza con cui egli ha, invece, affrontato il nodo delle
competenze — strettamente collegate — in materia di governo del
territorio e dell’ambiente: competenze da cui vengono rigidamente
escluse le Regioni, cui pure è affidata la redazione e l’attuazione dei
piani paesaggistici.
L’articolo 117, infatti, riserva senza
equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e
distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e
grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e
relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse
nazionale e internazionale». Tutte materie, queste, che l’articolo 116
esclude esplicitamente da quelle su cui le Regioni potrebbero in futuro
godere di «particolare autonomia»: laddove lo stesso articolo continua,
invece, ad ammettere che essa possa investire i beni culturali e il
paesaggio.
La ratio di queste norme era stata anticipata dallo
Sblocca Italia del governo Renzi, che la Corte ha giudicato
incostituzionale proprio dove ha estromesso la voce delle Regioni da
materie sensibili per la salute dei cittadini come gli inceneritori, o
le trivellazioni: uno degli obiettivi della nuova Costituzione è
evidentemente proprio quello di impedire, in futuro, referendum come
quello sulle trivelle. E non è dunque un caso che la campagna del Sì si
apra riesumando la più insostenibile delle Grandi Opere: il Ponte sullo
Stretto di berlusconiana memoria. Insomma: se si tratta di decidere come
consumare il suolo, le Regioni vengono escluse. Ma vengono invece
riammesse al banchetto della mercificazione del patrimonio culturale.
C’è evidentemente del metodo in questa, pur confusa, revisione
costituzionale: ma è un metodo che rafforza le ragioni di chi si
appresta a votare no.