Repubblica 26.10.16
Oltre 6300 minori scomparsi nel 2016: cercano i parenti o cadono in reti criminali
La crisi raccontata dal progetto Lena
Tra i migranti bambini sbarcati da soli in Italia che fuggono dai centri
di Lorraine Kihl
DA
ALCUNI giorni Alpha va alle scuole serali per imparare l’italiano. Non è
una cosa che gli occupa tutta la giornata, ma è un inizio. Il resto del
tempo: dormire, mangiare, televisione, noia, noia, noia. «Quando
possiamo uscire, andiamo fuori e guardiamo le macchine che passano. Non
c’è molto da fare, in realtà ». Ma dopo i lavori forzati e la prigione
in Libia, va bene. Questo 17enne della Guinea vive insieme ad altri 24
ragazzi in un centro di prima accoglienza creato due mesi fa
riconvertendo ex uffici della polizia a Catania. Con 19.429 minori non
accompagnati sbarcati dall’inizio dell’anno, i centri “di emergenza”
sono diventati la norma nel sud Italia.
Con fondi limitati (lo
Stato versa 45 euro per bambino al giorno, contro i 60-80 del Belgio) e
male organizzate, queste strutture fanno grande affidamento sui sostegni
esterni (volontari, fondazioni) per garantire ai minori servizi
adeguati e completi: assistenza psicologica costante, attività educative
e culturali… con un effetto lotteria per i giovani. Complessivamente il
Sud del Paese, più povero, è largamente sfavorito: non solo i Comuni
non hanno gli stessi mezzi di quelli del Nord, ma in più devono farsi
carico del grosso dell’accoglienza. La sola Sicilia accoglie più del 40
per cento dei minori non accompagnati. Dopo tre anni di andirivieni,
oggi il Parlamento dovrebbe votare una legge quadro. Un modo per
prendere atto politicamente che questo imponente flusso di minori è
norma e non eccezione e di garantire protezione e assistenza. Le cose si
muovono. Lentamente.
«Mi avevano detto che qui sarebbe stato
semplice», ricorda Ibrahim, 16 anni. «Che avremmo potuto studiare, che
saremmo andati a scuola». Il ragazzo deve ancora digerire la delusione.
La lentezza delle procedure non aiuta: per un ricongiungimento familiare
bisogna aspettare mesi, a volte più di un anno. E quando vuoi lavorare,
e in fretta, per rimborsare chi ti ha fatto entrare nel Paese o per
sostenere la famiglia, l’attesa è incomprensibile. Allora se la filano, a
costo di diventare clandestini.
Davanti all’andirivieni dei
pullman della stazione di Catania, un gruppetto di eritrei ammazza il
tempo seduto intorno a una panchina. Per terra, accovacciato, c’è un
ragazzo pallido di 17 anni che guida la conversazione. Biniam è arrivato
solo qualche giorno fa ed è appena scappato dall’ospedale dove
l’avevano mandato. Ha ancora intorno al polso smagrito il braccialetto
di carta con nome e gruppo sanguigno. «Sapete dove posso trovare un
cappotto? Stasera dormiremo sull’erba da qualche parte, ma fa freddo di
notte». Ha un fratello in Olanda. A Roma c’è un “amico” che lo aiuterà.
Insiste: deve andare a Roma. Al più presto. Ma prima gli serve una
giacca per la notte. Sta aspettando «quelli della Oxfam» per avere uno
degli zaini che distribuiscono. «Avranno sicuramente una giacca per me».
«Quelli
della Oxfam», Andrea e Chiara, discutono un po’ più in là, visibilmente
preoccupati. La situazione di Biniam e di un altro adolescente che lo
accompagna, Habtcom, li mette di fronte a un dilemma: gli zaini che
contengono un kit di prima accoglienza (asciugamano, sapone, calzini,
spazzolini da denti, mappa della città… ma niente giacca) sono destinati
agli adulti. «È importante che non ci sostituiamo al ruolo dei centri
d’accoglienza», spiega Andrea. Ma i due ragazzi mingherlini, se dicono
la verità, hanno solo quest’idea di seguire il gruppo di adulti eritrei
verso il parco dove dormono. Sta per venire buio e bisogna prendere una
decisione: va bene per gli zaini, a patto che Biniam e Habtcom vadano a
trascorrere la notte nella struttura di alloggio per senzatetto situata
qualche strada più in là. Gli adolescenti fanno cenno di sì con il capo e
ripetono diligentemente l’indirizzo, prima di andare verso la mensa per
poveri.
«Molti minori non accompagnati gironzolano qui durante la
giornata», spiega Andrea Bottazzi. «Qui potranno prendere il pullman
per il Nord, quando si saranno procurati i soldi. Noi gli spieghiamo
sempre che nei centri di accoglienza saranno accuditi meglio. Ma non c’è
da farsi illusioni: la maggior parte di loro si darà alla macchia».
Yonas
a giocare la carta del sistema ci ha provato. Per un po’. Questo
ragazzo eritreo di 17 anni cerca di raggiungere suo fratello che da vive
in Finlandia. È trascorso un mese, poi un altro. La sua pratica non è
neppure stata avviata, non ha mai incontrato un interprete. Due mesi a
non fare niente, rinchiuso nella sua barriera linguistica. E allora,
senza biglietto, ha preso un treno per Milano, dove sapeva di trovare un
intermediario. La polizia l’ha beccato. Ha avuto paura, ma l’hanno solo
fatto scendere dal treno. Il treno successivo andava a Roma. Vada per
Roma, col rischio di stare per strada.
Contrariamente ad altre
grandi città del Nord, la capitale italiana non ha messo in piedi un
sistema di accoglienza per i migranti in transito. Da poco più di un
anno, un’associazione della società civile cerca di compensare questa
mancanza come può, distribuendo pasti caldi, coperte, offrendo una
parvenza di alloggio nei pressi della stazione Tiburtina, dove si
radunano i migranti. Ma cacciati prima dai loro locali e poi dalla
stradina dove proseguivano in un’installazione di fortuna, i volontari
giocano tutte le sere al gatto e al topo con la polizia che arriva per
disperdere qualsiasi assembramento. Nei dintorni della stazione, decine
di gruppetti di due o tre migranti vagano portandosi dietro le buste che
contengono i loro miseri averi. Due giorni prima sono riusciti a
dormire nel giardino della basilica, poi sui prati davanti alla
cancellata. Per il momento tutti i centri di accoglienza sono saturi. Si
stima in 6.357 il numero di minori non accompagnati spariti nel 2016.
«Si calcola che la metà dei minori che vediamo passare presenti una
vulnerabilità specifica», dice Valentina Aquino, coordinatrice di Civico
Zero. «Ma sono tutti vulnerabili. Sono in balia dei trafficanti di
esseri umani».
All’inizio, queste grandi città erano soltanto
punti di passaggio. Due giorni, massimo una settimana, il tempo di
racimolare un po’ di soldi e trovare l’intermediario per proseguire il
viaggio. Ma ora che i controlli alla frontiera sono più stringenti,
passare è diventato più difficile e costoso. Nel migliore dei casi il
denaro glielo spediscono da casa i parenti o un amico. «E se la famiglia
non ha i mezzi», spiega Marco Cappuccino di Civico Zero, «sarà lavoro
in nero per una paga da fame, attività di piccola criminalità, spaccio
di droga e prostituzione ».