Repubblica 26.10.16
La solitudine dell’indigeno italiano
di Ezio Mauro
QUI
NON c’è niente. Niente per noi, che ci siamo nati: figurarsi per gli
altri”. Potrebbe finire sui manuali di storia dei nostri anni complicati
questa frase di una cittadina italiana, probabilmente moglie e madre,
abitante della frazione di Gorino sul delta del Po, che ha partecipato
al blocco stradale del suo paese per impedire l’arrivo di dodici donne
immigrate coi loro figli nell’ostello requisito dal prefetto.
LE
STRANIERE sono state dirottate in tre altri centri del Ferrarese, Gorino
continuerà a non ospitare nemmeno un immigrato, la protesta ha vinto.
Smontate le barricate e il gazebo notturno i bambini possono tornare a
scuola, i pescatori riprenderanno il mare. Tutto come prima? Non
proprio. Quella frase dimostra che dall’egoismo del niente può nascere
una vera e propria guerra per il nulla in cui viviamo. Che ci angoscia,
ma che non vogliamo dividere con nessuno.
Sono parole sincere,
fotografie brutali delle mille periferie italiane quelle pronunciate al
posto di blocco di Gorino. L’ospedale più vicino è a 60 chilometri, il
medico viene in paese un’ora al giorno e se ne va, gli uomini sono fuori
in barca dal mattino presto fino al tardo pomeriggio perché vivono di
pesca, quell’ostello prima requisito poi restituito funziona anche da
bar, è l’unico centro di ritrovo del paese, ha qualche camera per i
pochi turisti che in stagione vogliono fermarsi per un giro sul delta. È
una vita minima, s’immagina di sacrificio, attorno alla casa, la
famiglia e la pesca. Dovrebbe farci riflettere il fatto che l’unica
volta in cui il paese si sente comunità, agisce insieme, trova
un’espressione collettiva, è davanti alla notizia che arriveranno dodici
richiedenti asilo. Gorino non ha stranieri, tutti sono del posto. Ma
ugualmente reagisce ribellandosi al sindaco di Goro, al prefetto, al
colonnello dei carabinieri che promettono di far fermare le migranti una
sola notte in paese. «Cosa vengono a fare qui? Abbiamo già i nostri
guai, non ne vogliamo altri».
Non ci voleva molto a prevedere quel
che sta succedendo. La superficie sottile della civiltà italiana — la
solidarietà cristiana, la fraternità socialista, il buon senso
compassionevole liberale — si sta sciogliendo nei punti più deboli della
nostra geografia sociale, i piccoli centri della lunga periferia
italiana, i paesi di montagna e di campagna, le isole ghettizzate
all’interno delle grandi città. Persone in buona parte anziane, estranee
al circuito del consumo multiculturale, frastornate dalla
globalizzazione, con gli immigrati si trovano nei giardini spelacchiati
sotto casa un mondo che non hanno mai visitato e mai conosciuto, senza
che le comunità siano state preparate a gestire il fenomeno,
inquadrandolo nelle sue dimensioni, nelle prospettive, nel rapporto tra i
costi e i benefici. Si sentono esposti, si scoprono vulnerabili,
diventano gelosi del poco che hanno, egoisti di tutto: o appunto di
niente, perché l’egoismo sociale funziona anche come forma identitaria
di riconoscimento sociale e di auto-rassicurazione.
Va così in
scena una vera e propria lotta di classe in formato inedito, che mette
di fronte la modernità esausta e logorata della democrazia occidentale
con la primordialità dei mondi disperati che prendono il mare per
cercare sopravvivenza, e nient’altro. Gli ultimi si trovano davanti i
penultimi, che non vogliono concedere agli stranieri un millimetro di
spazio sulla terra che considerano loro. Se non fossero scesi fino
appunto al penultimo gradino della scala sociale (quello di un ex ceto
medio che viveva del proprio lavoro, e che con la crisi si sente
precipitare nella mancanza di impiego e di futuro) non si sentirebbero
sfidati direttamente dai richiedenti asilo che bussano alla nostra
porta: non si sentirebbero “concorrenti”, invidiosi di quell’elemosina
sociale che l’Europa elargisce con un’accoglienza riluttante, mandando i
carabinieri a requisire sei stanze di un ostello vuoto in una stagione
turisticamente morta. È l’ultima espressione del welfare state: nato
come forma di solidarietà, come strumento di emancipazione e di
integrazione — dunque di cittadinanza —, diventa simbolo di divisione e
di identità, come un privilegio da consumare soltanto noi, al riparo
dagli occhi stranieri e alieni.
Per capire bisogna avere il
coraggio e la pazienza di guardare dentro l’impoverimento morale
prodotto in ognuno di noi dalla crisi, che agisce sul sentimento di sé e
degli altri. È un percorso scavato dalla paura e dall’insicurezza, due
giganteschi motori politici di cui raccoglieremo i risultati avvelenati
tra qualche anno. La crisi più lunga del dopoguerra, la mancanza di
lavoro, l’erosione dei risparmi, la disoccupazione giovanile, il
terrorismo jihadista nei nostri Paesi sono fenomeni che tutti insieme
trasmettono la sensazione di un mondo fuori controllo, senza più
governance, con la mondializzazione che diventa una minaccia, la
politica e le istituzioni fuori gioco. L’insicurezza sociale determinava
ancora domande politiche, l’attesa di una soluzione di governo. Quando
l’insicurezza da sociale diventa fisica, cerca invece soluzioni
pre-politiche o post-statuali, che rispondano a paure più che a bisogni,
a una necessità di protezione più che di emancipazione, come se in
gioco ci fosse non più la sicurezza del cittadino, ma l’incolumità
dell’individuo.
Questa miscela fatta di spaesamento e solitudine,
panico del presente e angoscia del futuro, si scarica facilmente e
immediatamente sull’immigrato. Soprattutto nelle piccole comunità, e nel
caso di anziani soli davanti allo spettacolo della paura moltiplicato
dalle televisioni, c’è il timore di perdere il filo di esperienze
biografiche condivise, che è quel che forma identità e comunità. C’è il
timore, cioè, di finire “globalizzati” a casa propria, spostati senza
muoversi, mentre il mondo fa un giro completo intorno a noi che non
sappiamo più padroneggiarlo, con le nostre mappe diventate inutili. “Noi
non siamo razzisti”, ripetevano davanti ad ogni microfono gli abitanti
di Gorino sulle barricate. Ed erano sinceri. Ma siamo arrivati al punto
che la coscienza di sé diventa esclusiva, la paura spiega l’egoismo, il
destino degli altri non ci interpella: purché non qui da noi, finiscano
dove vogliono, finiscano come possono, finiscano comunque. È la presa
d’atto di una sotto-classe umana che non ha diritti e non può
pretenderne, perché non assimilabile e dunque superflua, quindi inutile.
Quanto alla sua pretesa di sopravvivere, alla sua ricerca disperata di
libertà a costo della vita, è un problema che non ci riguarda: non noi,
non ora, soprattutto non qui.
In questo modo mutiliamo la nostra
umanità e rinunciamo ad ogni politica nei confronti dei migranti. La
sostituiamo con il bando. Ci basta bandirli per non vederli, respingerli
per allontanarli, non farli avvicinare per proteggerci. Non capiamo che
solo una Europa che abbia un ministro degli Interni dell’Unione e una
politica estera unitaria può affrontare il fenomeno. Dovremmo
pretenderla, imporla, costruirla, invece di mettere in campo misure
burocratiche e fisiche di selezione, le liste delle lingue e dei
dialetti, la richiesta di esaminare i denti dei ragazzi richiedenti
asilo per capire se sono bambini, minori o adulti, i rilevatori di
battito cardiaco e di CO 2 al porto di Calais quando arrivano i camion,
per scoprire se ci sono esseri umani nascosti.
Se la politica non
contrasta il passo alla paura, rispondendo ai sindaci toscani che
denunciano una sperequazione nelle quote di accoglienza, ascoltando il
sindaco di Milano che chiede di uscire dall’emergenza perché ormai il
fenomeno ha bisogno di misure strutturali, faremo crescere mille casi
Gorino, tentativi disperati e inutili di privatizzazione della sicurezza
nella dispersione di ogni sentimento di fiducia nello Stato, nel suo
senso di giustizia, nella sua capacità di garantire insieme protezione e
democrazia. Proprio nel momento in cui credono di poter far da soli,
non lasciamo soli i cittadini di Gorino: lo sono già, in compagnia
soltanto delle loro paure. Ma sul delta del Po, ieri è nata l’ultima
nostra raffigurazione contemporanea, spogliata del cosmopolitismo,
dell’identità europea, del multiculturalismo, del sentimento di
cittadinanza del mondo. È l’indigeno italiano, ciò che certamente noi
siamo ma che non ci eravamo mai accontentati di essere.