La Stampa 26.10.16
La reazione irrazionale di chi si sente lasciato solo
di Giovanni Orsina
Non
riesco a immaginare niente di più facile che stigmatizzare gli abitanti
di Goro e Gorino, nel Ferrarese, per aver innalzato le barricate contro
una ventina scarsa di migranti. Che per giunta erano donne - una
addirittura incinta - e bambini. Diamo dunque per assodato che i
comportamenti di goresi e gorinesi siano stati ispirati da una buona
dose di egoismo e xenofobia. E che le dure parole rivolte loro dal
ministro dell’Interno, dal prefetto Morcone, a capo del dipartimento
immigrazione del Viminale, oltre che da innumerevoli italiani qualunque
sui social network siano perciò giustificate.
Bene. Una volta che
avremo sfogato la nostra indignazione, dovremmo però cominciare a
chiederci se seguire la via facile significhi pure seguire la via
giusta. Ossia, se la domanda che dobbiamo porci di fronte alle barricate
di Goro e Gorino sia soltanto «che cosa pensiamo di loro», o non
piuttosto: «come possiamo convincerli a non comportarsi così?». Un
interrogativo tanto più pertinente, quest’ultimo, perché - pure a voler
credere col ministro Alfano che goresi e gorinesi non rappresentano il
nostro Paese - non paiono pochissimi gli italiani spaventati quanto
loro.
Ma come, si dirà, spaventati da uno sparuto gruppetto di
donne e bambini? Certo che no. Spaventati, però, dai molti problemi di
cui quello sparuto gruppetto rappresenta un’avanguardia. Non vedo
ragione perché proprio il delta del Po debba essere immune da una
sensazione diffusa ormai in tutto l’Occidente, e in Italia ancora più
forte che altrove: quella di aver perduto il controllo su noi stessi.
Ossia, d’esser destinati nei prossimi anni a un declino che nessuno
sembra in grado di arrestare, né lo Stato nazionale né l’Unione Europea,
e in fondo al quale ci aspettano la scomparsa d’un modello di vita - se
l’espressione non fosse troppo altisonante potremmo dire: il tramonto
di una civiltà -, e il vanificarsi d’un benessere materiale che già
adesso appare fragile e precario.
Certo, questa è una sensazione
astratta. Proviamo però a collegarla con un dato concreto: il gruppetto
di migranti del quale stiamo parlando è effettivamente un’avanguardia.
Seguita, soltanto quest’anno, da altre centocinquantamila persone -
ventimila in più di quelle che vivono a Ferrara. Persone che non si
limitano più a transitare per l’Italia puntando verso Nord, come
avveniva negli anni scorsi, e che in buona parte si fermeranno da noi.
Ma mica andranno tutti e centocinquantamila a Goro! - si obietterà. No,
naturalmente, e lo sanno anche i goresi. Quel che i goresi non sanno,
però, è quanti alla fine andranno a Goro, e per quanto tempo resteranno,
e in che modo saranno integrati, e se la comunità locale sarà aiutata a
integrarli. E non soltanto quest’anno, ma per un numero imprecisato di
anni a venire. Perché questi flussi migratori chissà quando si
fermeranno.
Rivista in questa prospettiva, la sensazione astratta
di aver perduto il controllo diventa anch’essa tangibile: si trasforma
in una sfiducia profondissima nella volontà e capacità delle istituzioni
di proteggere i cittadini, ossia di governare i processi in corso.
«Tutti quei carabinieri, mai visti tanti» - così si sarebbe detto a
Gorino, secondo le cronache. «Sono venuti a difendere loro da noi, non
noi da loro».
Se «rivolte» come quella del Ferrarese scaturiscono
dalla paura del futuro e dalla sfiducia nella capacità delle istituzioni
di affrontarlo - e tanto più se le istituzioni fanno davvero fatica a
governare problemi oggettivamente intrattabili, e non possono che
chiedere al Paese tanta pazienza -, c’è da domandarsi allora se battere
soltanto la via facile dell’indignazione, della condanna, dell’accusa di
egoismo e xenofobia sia davvero la scelta giusta. O se non finisca
piuttosto per esser controproducente: per accrescere in tanti italiani
la sensazione già forte che le istituzioni non solo non li tutelano, ma
nemmeno li capiscono, e che fa bene chi bada a proteggersi da sé.