Repubblica 26.10.16
“Cerchiamo aiuto e voi ci cacciate, per favore fermate questo odio”
Joy, Belinda e Faith: parlano le rifugiate allontanate dal paese
Una è all’ottavo mese di gravidanza, un’altra era minacciata dagli islamisti
l’infermiera la futura mamma fuga da da Boko Haram
di Caterina Giusberti
FERRARA.
Sembrano delle bambine: con le felpe col cappuccio calate sugli occhi,
le mani sottili, l’aria sfinita. Otto arrivano dalla Nigeria, due dalla
Costa d’Avorio e due dalla Sierra Leone. Scappano chi dalla guerra, chi
da Boko Haram, chi dalla propria famiglia. Una di loro è incinta
all’ottavo mese. Prima di sabato non sapevano neanche che esistesse, un
Paese chiamato Italia, ma quello che hanno visto e sentito dai
finestrini del pullman che lunedì sera ha fatto inversione sulla Ferrara
Lidi lo hanno riconosciuto all’istante. «Mi rivolgo alle persone che ci
hanno respinto — alza gli occhi Belinda, 22 anni — Ci hanno fatto male:
dove vogliono che andiamo? Siamo qui per avere protezione. Fermate
questo odio, per favore, siamo tutti una cosa sola, al mondo. Forse
quelle persone non conoscono la nostra storia». Forse no. E allora loro
la raccontano, in inglese, a bassa voce, una dopo l’altra. Tornate da
Goro, lunedì sera, hanno aspettato per ore nella caserma dei carabinieri
di Comacchio che un frenetico giro di telefonate permettesse loro di
trovare almeno un posto per la notte. Era passata la mezzanotte quando
Belinda, Joy e Faith sono arrivate in un centro per anziani di Asp, a
Ferrara, dove un’altra nigeriana, Success, è ospite alla Caritas. Le
altre ragazze respinte da Goro, tutte sui vent’anni, sono quattro in una
casa famiglia di Codigoro e quattro in un albergo di Fiscaglia.
Belinda
ha ventidue anni ed è scappata cinque mesi fa dalla Sierra Leone,
dov’era un’infermiera. È sposata e suo marito, spiega, «è stato
incarcerato dal partito, per vie di alcune manifestazioni politiche alle
quali aveva partecipato». Quando lui è evaso, la vita anche per lei ha
smesso di essere sicura. «Mi cercavano, credevano sapessi dov’era:
avrebbero incarcerato anche me, così sono fuggita». Arrivata in Libia,
c’è rimasta «due mesi e due settimane». Lo ricorda con precisione perché
«la vita lì non andava bene, gli uomini arabi volevano violentarmi,
così sono scappata dal centro governativo in cui mi trovavo e sono
andata verso il mare». C’è rimasta due settimane, a sopravvivere, finché
non ha visto un barcone. «Li ho supplicati e loro hanno accettato di
farmi posto, anche se non avevo i soldi per il viaggio». Poi è arrivata
in Italia, a Bologna e infine a Goro. «Mi ha molto ferito quello che ho
sentito — spiega — io voglio pregare queste persone di smetterla, non va
bene quello che fanno, io sono qui per chiedere protezione
internazionale ». È la più grande del gruppo e si vede, protegge le
altre come una sorella, soprattutto Joy, al suo fianco: «Siamo cugine»,
dice.
Joy ha vent’anni, viene dalla Nigeria ed è incinta
all’ottavo mese. Sarà la mamma di un bambino, che, assicura, sarà
sicuramente maschio e si chiamerà sicuramente Michael. «Spero di dargli
la vita migliore possibile». Spera anche di ritrovare il suo compagno,
il papà del bambino, che si chiama Lamin Dampha e ha 25 anni, lo cerca
da quando ha messo piede in Italia. «L’ho perso di vista quando siamo
saliti sulla barca in Libia — racconta — a me hanno fatto posto perché
ero incinta, ma lui non so neppure se sia riuscito ad imbarcarsi: c’era
troppa gente, il mare puzzava e le persone mi salivano sulla pancia».
Joy scappa da suo padre. «Faceva riti vodoo e voleva che mi convertissi
alla sua religione — spiega — poi si era risposato con una donna cattiva
con me. Ho deciso di scappare via col mio ragazzo, volevo farmi la mia
vita, ma sono rimasta incinta. A quel punto mio padre ha minacciato di
ucciderci entrambi». La notte che hanno lasciato il Paese, ricorda, sono
stati rapinati. «Siamo arrivati in Libia il 20 settembre, ma gli arabi
ci picchiavano, non ci davano cibo. Siamo scappati dal centro in cui ci
tenevano, dormivamo per strada, poi finalmente abbiamo trovato il modo
di salire su una barca. Ma lì l’ho perso». Arrivata a Ferrara, gli
operatori l’hanno subito portata in ospedale. «Il mio bimbo sta bene»,
ripete. E per la prima volta sorride.
Faith ha vent’anni, i
capelli neri tagliati corti e parla pochissimo. «Vengo dal nord della
Nigeria — spiega — dove c’è Boko Haram ». Quando i fondamentalisti hanno
attaccato la sua famiglia, racconta, «siamo scappati verso il Mali, ma
io ho perso di vista tutti quelli che erano con me. Non so che fine
abbia fatto la mia famiglia ». Una volta arrivata in Libia però, dice
lei, ha avuto fortuna. «Un uomo mi ha aiutato, mi ha dato da bere, da
mangiare, un posto in cui dormire e mi ha messo sul gommone per
l’Europa. Sono arrivata in Italia sabato scorso, poi a Bologna domenica e
ieri ci hanno portato qui a Ferrara ». Dal pullman «abbiamo visto tante
gente che parlava e non capivamo cosa stessero dicendo. Poi abbiamo
capito: non ci volevano ».