Repubblica 25.10.16
La menzogna cambia il cervello
Una (prima) bugia tira l’altra Perché ci piace mentire
di Elena Dusi
«ARRIVO
presto, sono imbottigliato nel traffico ». Si comincia così, con le
cosiddette bugie bianche. Frasi buttate lì che non sembrano danneggiare
nessuno. Ma che, nel nostro cervello, sono come sassolini che si
staccano dalla montagna, rischiando di innescare una valanga.
La
prima volta, hanno osservato i ricercatori dell’University College
London, mentire innesca una sensazione di disagio. L’amigdala — una
delle aree del cervello legate alle nostre reazioni emotive — mostra
un’attivazione accentuata (ed è sulle conseguenze di quest’ansia che
cercano di lavorare le varie “macchine della verità” escogitate nel
corso dei decenni).
MA dalla seconda bugia in poi la reazione
sgradevole si attenua. L’amigdala si attiva sempre meno. «Il cervello -
scrivono i neuroscienziati londinesi guidati da Dan Ariely e Tali Sharot
nel loro studio su Nature Neuroscience mostra una sorta di adattamento.
Si innesca un meccanismo biologico che agisce come un piano inclinato.
Quel che inizia come una piccola azione disonesta può subire una
escalation fino a diventare trasgressione grave».
I ricercatori
inglesi hanno usato una simulazione: a 80 volontari hanno chiesto di
stimare quanti penny erano contenuti in un barattolo, mettendoli in una
situazione in cui una piccola menzogna sarebbe passata inosservata e gli
avrebbe permesso di guadagnare qualche spicciolo. Nella prima delle 60
ripetizioni del gioco, i volontari hanno “arraffato” in media quattro
sterline. Nell’ultima quasi otto, senza che l’amigdala - come un
poliziotto corrotto ne fosse disturbata più di tanto. Se avessero
proseguito, sarebbero forse arrivati a uno “schema Ponzi” in piena
regola.
«Non c’è da stupirsi. Quando la disonestà è diffusa, i nostri
standard morali si abbassano. Un’altra ricerca l’anno scorso dimostrava
che nelle nazioni dove la corruzione è più diffusa anche i singoli
individui si comportano in maniera meno onesta» commenta Salvatore Maria
Aglioti, neurologo dell’università Sapienza che nel suo laboratorio a
Roma ha studiato a lungo la menzogna. Una settimana fa su Scientific
Reports (una rivista sempre della famiglia di Nature) il gruppo di
Aglioti e Maria Serena Panasiti ha osservato come nel mentire - e sempre
per effetto dell’ansia e del disagio - aumenti la temperatura di alcune
zone del viso: occhi e labbra, ma soprattutto naso. Per dare al
fenomeno il soprannome di “effetto Pinocchio” è bastato un attimo.
«Il
nostro esperimento riguardava solo il test con le monetine » spiega
Neil Garrett, un dottorando dell’Affective Brain Lab di Londra in cui si
è svolto l’esperimento. «Ma lo stesso concetto di assuefazione potrebbe
estendersi alla ricerca delle sensazioni di rischio o ai comportamenti
violenti». E Tali Sharot, la coordinatrice del laboratorio, ricorda:
«Molti dati scientifici su casi di infedeltà, doping, pubblicazioni
truccate o frodi fiscali, confermano che i responsabili hanno iniziato
con piccole azioni sfuggite al loro controllo e diventate valanga».
Non
c’è davvero speranza, sembrerebbe, se i nostri “guardiani” interni si
fanno corrompere per poche sterline. «Ma nessun individuo è uguale
all’altro nell’affrontare i dilemmi morali. Ci sono personalità più
vicine a un’intelligenza machiavellica e altre attente a non rovinarsi
la reputazione» fa notare Aglioti. Che in una simulazione
sostanzialmente simile a quella degli inglesi, in cui si usavano le
carte al posto delle monete, ha pure notato una percentuale altissima di
“bari”. «È proprio vero che l’occasione fa l’uomo ladro. Messo nelle
condizioni opportune, il 90% dei volontari ha fatto ricorso a piccole
disonestà per ottenere un guadagno. Per vincere il disagio emotivo si fa
ricorso ai cosiddetti “disimpegni morali”. I più diffusi: così fan
tutti, di quel denaro avevo più bisogno io, anche lui è stato scorretto
con me. Di questo passo, si può arrivare alla giustificazione dei
peggiori crimini, inclusi quelli razziali».
Una soluzione che alla
Sapienza stanno studiando, per frenare il piano inclinato della
disonestà, chiama in causa la realtà virtuale. «Le prediche non servono»
spiega Aglioti. «Ma se mettiamo un uomo in laboratorio e gli facciamo
prendere le sembianze di un’avatar donna che subisce violenze, la
lezione diventa efficace».
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Vale anche per
infedeltà, disonestà e doping: si inizia con piccole azioni, poi scatta
l’assuefazione “Le prediche aiutano poco. Meglio mettersi nei panni
altrui con l’aiuto della realtà virtuale”